Tutte le periferie hanno qualcosa di romantico: sono luoghi di confine, ma anche di identificazione culturale: intrattengono con la città alla quale appartengono (si dice sempre la periferia “di” Milano, “di” Londra) un rapporto di amore e odio. Le periferie sono la seconda scelta, il posto dove si va a vivere perché il centro costa troppo, le periferie difficilmente godono di una buona reputazione e sono i luoghi dove per eccellenza si concentrano le criticità di una città, soprattutto a livello sociale. Le periferie però hanno anche un indubbio fascino: sono contenitori di storie e, in alcuni casi, nascondono dei veri e propri gioielli architettonici che di solito rimangono fuori dagli itinerari più battuti della città. Le zone periferiche di Milano sono disseminate di vere e proprie chicche dall’indubbio valore artistico, che però difficilmente vengono annoverate tra gli highlights milanesi, tra i monumenti da non perdere o tra gli itinerari a piedi per la città da percorrere almeno una volta nella vita.
La periferia di Milano, come quella di molte altre città, è un crocevia di storie, culture, ma anche di percorsi artistici. Abbiamo già parlato delle chiese-gioiello che sorgono al limitare della città: disegnate da archistar, o casa per installazioni di artisti di fama internazionale, sono delle chicche milanesi che si trovano leggermente fuori dagli itinerari più battuti. L’estro artistico della periferia milanese, però, non si esaurisce nell’arte ecclesiastica: anche l’edilizia popolare val bene una visita.
Condominio Monte Amiata
Siamo al limitare del quartiere Gallaratese, quasi a Pero, e qui sorge un complesso residenziale che svariate volte è comparso su riviste di settore internazionali, ma che pochi milanesi conoscono. I cinque corpi che compongono il condominio Monte Amiata infatti, che prende il nome dalla società mineraria che ne commissionò la realizzazione, ospitano fino a 2000 persone e non hanno nulla a che spartire con l’edilizia popolare classica. La particolarità di questo insediamento urbano è infatti la totale irregolarità geometrica, l’incostanza cromatica e la presenza di passerelle e piazze: la definizione insomma, di una piccola città dove la città ormai non esiste più, allontanata da campi e tangenziali. Progettato dall’architetto neorealista Carlo Aymonino e da Aldo Rossi, il complesso residenziale Monte Amiata ospita al suo interno anche un anfiteatro all’aperto, centro ideale di tutta l’opera.
QT8
L’acronimo che sta per “Quartiere della Triennale Ottava” e che delimita la zona che si trova proprio appena al di fuori dei limiti cittadini, vicino alla Fiera Vecchia, nasconde un omaggio all’opera di Le Corbusier: Piero Bottoni, che nel 1945 guidava il team di progettisti, volle infatti mettere in pratica il concetto di città-giardino caro all’architetto svizzero. QT8 infatti non suscitò, all’epoca, l’interesse degli architetti di mezzo mondo per la presenza di tecniche costruttive o modelli abitativi innovativi, bensì per la concezione dello spazio urbano: dalle strade pensate per connettere il quartiere con la città e con le altre località lombarde, alla mobilità cosiddetta interna, che connette i vari nuclei residenziali del quartiere. Anche il verde pubblico giocava e gioca un ruolo di primaria importanza a QT8: orti e giardini condominiali, viali alberati, e, soprattutto, il Monte Stella. Quello che è conosciuto come la “montagnetta di Milano” doveva in origine essere un laghetto di quartiere, il letto sarebbe stato una delle ex cave di sabbia della città, ma lì dove doveva esserci l’acqua finì per essere depositata l’enorme quantità di macerie prodotta in città dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
Le case igloo del Villaggio dei giornalisti
Siamo nel quartiere della Maggiolina, che ormai tanto periferia non è più ma che, nell’immediato dopoguerra, era praticamente campagna. Immaginiamo quindi l’impatto che abbiano avuto all’epoca, le otto case-igloo di Mario Cavallé. Progettate dall’ingegnere seguendo una tendenza che arrivava dagli Stati Uniti, gli otto progetti abitativi presentano tutti una pianta e una copertura circolare di 50 metri quadrati, uno spazio sufficiente a ricavare una cucina, una sala, due camere e un bagno. All’epoca, era il 1946, ognuna di queste curiose case presentava due piani, ma oggi, tra loft open space e ampliamenti strutturali, solo due igloo conservano ancora l’impianto originario. Le case igloo di via Lepanto confinano per altro con un’altra chicca architettonico-urbanistica di Milano: il Villaggio dei giornalisti. Chiamato così per via di un editoriale del 1911 del direttore de Il Secolo Mario Cerati, che lamentava la massiccia presenza di edilizia popolare e la mancanza invece di un’edilizia ad hoc per i ceti medio-alti, è un mix di architettura neorinascimentale, liberty e gotica.