Con il Capodanno sembrano essere passate in secondo piano culto e devozioni natalizie, contrassegnanti gli otto giorni che dal 25 dicembre vanno proprio al 1° gennaio. Pur essendone il cuore, l’ottava di Natale non esaurisce però l’omonimo tempo liturgico che si concluderà il 6 con l’Epifania. Non meraviglia pertanto che ancora ultimamente la natività di Cristo sia stata e continuerà a essere al centro della riflessione di tanti, compresi esponenti politici soprattutto di destra.
I profili social di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, come le pagine di Lega e Fratelli d’Italia di cui l’uno e l’altra sono relativamente leader, traboccano di post inneggianti al presepe. In cui, però, la raffigurazione plastica della grotta di Betlemme appare depauperata del primigenio significato spirituale per assurgere al ruolo primario di mezzo tutelare e rivendicativo della «nostra identità e delle nostre tradizioni», volendo citare, a titolo esemplificativo, il post fissato in alto da Meloni sul suo account Facebook fino a fine dicembre.
Per non parlare della perdurante immagine di copertina, che, utilizzata da Salvini – e, ça va sans dire, dalla Lega – per un «buon Santo Natale e felice Anno nuovo» con tanto di frase di «san Francesco d’Assisi, patrono d’Italia» e il noto slogan sovranista «Prima l’Italia!», vede campeggiare a sinistra l’immagine sorridente del “Capitano” e a sinistra quella presepiale di Gesù bambino mentre viene posto nella greppia da Maria e Giuseppe. Effigie, quest’ultima, che lo stesso segretario del Carroccio e il suo partito avevano ampiamente utilizzato prima e dopo Natale con la grossolana didascalia: «Maria, la Madre. Giuseppe, il Padre. Buon Santo Natale, sperando che in Europa nessuno si offenda».
Grossolana, senza ombra di dubbio, per il riferimento meno alle linee guida comunicative della Commissione europea a uso interno (poi ritirate) che alla riproposizione di un unico modello familiare, dove la triade madre-padre-figlio, secondo la neo-teologia padana, è incarnata in sommo grado da Maria-Giuseppe-Gesù e dunque perfettamente interscambiabile.
A balzare immediatamente all’occhio non è solo l’ennesimo uso strumentale del tema cristiano in chiave anti europea e anti omogenitoriale: impossibile qui non ripensare ai litanici slogan «Il bimbo ha bisogno della mamma e del papà» e «Giù le mani dai bambini, dalle mamme e dai papà», cui Salvini e sodali ci avevano abituati nel 2021 durante il dibattito del fu ddl Zan. Ma anche, e soprattutto, l’ignoranza religiosa sottesa alla definizione di Giuseppe quale «il Padre» per antonomasia e quale padre di Gesù tout court.
Per il cristiano è proprio l’incarnazione di Gesù Cristo nel seno di Maria, da cui nasce a Betlemme (ex Maria virgine, come sottolinea il Simbolo niceno-costantinopolitano o Credo), a rivelarne tanto la duplice natura divina e umana quanto la duplice generazione: una da Dio Padre prima di tutti i secoli (ante omnia saecula), una da Maria di Nazareth per opera dello Spirito Santo (de Spiritu Sancto) nel tempo. Anzi, volendo citare un celebre passo della XV Catechesi battesimale di san Cirillo di Gerusalemme, «una da Dio prima dei tempi, un’altra dalla Vergine nella pienezza dei tempi». Ecco perché, sintetizzando una bimillenaria tradizione fondata sui testi scritturali, il Catechismo della Chiesa Cattolica recita in maniera sintetica: «Gesù ha rivelato che Dio è “Padre” in un senso inaudito: non lo è soltanto in quanto Creatore; egli è eternamente Padre in relazione al Figlio suo unigenito, il quale non è eternamente Figlio se non in relazione al Padre suo» (240).
Secondo le affermazioni di Padri della Chiesa, scrittori ecclesiastici e magistero quella di Giuseppe nei riguardi di Gesù è sì una vera paternità ma da sempre definire, in ogni caso, quale putativa o adottiva o legale. È lo stesso Catechismo a compendiare in tale ottica il compito paterno di Giuseppe, «chiamato da Dio a prendere con sé Maria sua sposa, incinta di “quel che è generato in lei […] dallo Spirito Santo” (Mt 1,20), affinché Gesù, “chiamato Cristo” (Mt 1,16), nasca dalla sposa di Giuseppe nella discendenza messianica di Davide». Non è un caso che nel racconto della nascita di Gesù, fatto dall’evangelista Luca, Giuseppe sia del tutto assente e ogni azione sia attribuita a Maria: parto, fasciatura del neonato, deposizione dello stesso nella mangiatoia di una stalla. In apocrifi neotestamentari, come il Protovangelo di Giacomo, Giuseppe riappare solo a nascita avvenuta in compagnia di una levatrice, che può solo constatare un parto a tal punto straordinario da non aver pregiudicato la verginità della madre.
Non meraviglia, pertanto, che l’artigiano o falegname di Nazareth, ricordato dai Vangeli nell’importante ruolo di custode di Maria sua sposa e del di lei figlio anche nei successivi racconti fino al rientro da Gerusalemme dopo il ritrovamento al Tempio, sia stato oggetto di culto, devozione e raffigurazioni abbastanza tardive nella cristianità. Per quel che invece attiene al magistero pontificio bisognerà addirittura attendere il 15 agosto 1889 per avere il primo documento specifico e complessivo di riflessione giosefologica: si tratta dell’enciclica Quamquam pluries di Leone XIII. Da allora i Papi hanno fatto a gara nel mettere sempre più in luce la figura dello sposo di Maria in prospettiva dottrinaria e promuoverne il culto. Fino a Francesco, che l’8 dicembre scorso ha concluso l’Anno speciale di San Giuseppe da lui indetto a 150 anni dalla proclamazione dello sposo di Maria a patrono della Chiesa universale. Indizione accompagnata dalla Lettera apostolica Patris corde, in cui Bergoglio ha tratteggiato sette aspetti della paternità di Giuseppe nell’ottica tradizionale della legalità e della duplice custodia.
Se ne può dunque evincere, come già detto sopra, una vera paternità dello stesso che però supera e trascende, non includendola nel caso specifico, quella biologica. Una paternità che, al pari della maternità, si concreta e si esercita innanzitutto nell’amore, cui ogni persona è irrevocabilmente chiamata: si è padri e si nutre amore paterno anche senza aver generato. Anche perché in ultima analisi, volendo tradurre alla lettera un detto d’area campana, i figli non sono di chi li fa ma di chi li cresce.
La Lettera apostolica porta poi alla scoperta, o forse riscoperta, di una dimensione accogliente della paternità, di cui Giuseppe sarebbe modello secondo Francesco. «L’accoglienza di Giuseppe – così la Patris corde – ci invita ad accogliere gli altri, senza esclusione, così come sono, riservando una predilezione ai deboli, perché Dio sceglie ciò che è debole (cfr 1 Cor 1,27), è “padre degli orfani e difensore delle vedove” (Sal 68,6) e comanda di amare lo straniero». Richiamo papale sicuramente sfuggito al segretario della Lega e ai suoi, che mentre si dilettano a definire san Giuseppe «il Padre» in un senso del tutto improprio e quasi eterodosso continuano anche nel corrente tempo di Natale, ormai al termine, a pubblicare post antimigranti o islamofobi. Nulla di nuovo in realtà: è solo la buona novella del Vangelo secondo Matteo. Ovviamente Salvini.