Anatomy of CoutureCom’è andata la settimana dell’Alta Moda di Parigi

Le sfilate della capitale francese sono dedicate a un segmento del mercato ristretto, ma non contano tanto in numeri quanto la brand reputation che ogni azienda riesce a consolidare. Le creazioni portate in passerella rappresentano il think tank dell’intero sistema

LaPresse

Si è conclusa ieri la fashion week parigina dedicata alla Haute Couture. Si calcola che il numero di reali acquirenti di questo segmento del fashion nel mondo intero sia compreso tra le due e le quattromila unità: una cifra di per sé insignificante rispetto a quanto una collezione di pret-à-porter – può raggiungere. Eppure anche questo gennaio – nonostante le difficoltà opposte dalla pandemia – a Parigi sono state presentate oltre trenta collezioni di questo particolarissimo genere di abbigliamento.

Sono in molti a chiedersi quale senso abbia oggi questa esibizione di sfarzo da parte di case di moda che nella stragrande maggioranza fanno affidamento su ben altro per raggiungere fatturati miliardari che le caratterizzano.

La risposta più semplice è riassumibile in una formula di marketing: brand reputation, il risultato cioè di una serie di azioni complesse atte a generare un sentiment positivo nei confronti del brand che le intraprende. Utile inoltre non solo per il prodotto specifico che la genera ma pure per l’intera gamma di cui dispone l’azienda. Su tratta di una risposta non avulsa dalla realtà, ma certamente insufficiente a giustificare gli sforzi operati dai brand e il fascino che la couture continua a esercitare anche su chi quel genere di abbigliamento non lo indosserà mai.

Per come stanno davvero le cose vale la pena di considerare alcune delle recenti presentazioni parigine. Alcune, ma tra le più significative.

Christian Dior (proprietà LVMH quotata alla borsa di Parigi, Milano e Francoforte). Per un brand con un nome come questo appare ragionevole pensare che lo sforzo sia mirato a difendere la reputazione di nome che fa parte dell’olimpo della storia della moda. La brand reputation qui si estende non solo al marchio in questione ma sfiora l’insieme di LVMH (tra gli altri Louis Vuitton, Fendi, Givenchy, Loewe, Celine, Kenzo, Loro Piana…).

Per il suo direttore artistico – l’italiana Maria Grazia Chiuri – questa collezione è stata l’occasione per ribadire uno dei punti di forza tradizionale della couture: quello delle lavorazioni provenienti da laboratori artigianali (sempre più rari) non industrializzabili. Per sottolinearlo lo spazio espositivo nel giardino del Musée Rodin è stato decorato con arazzi creati dagli artisti Madhvi e Manu Parekh e realizzati a mano da Chanakya, la scuola di artigianato in India, terra dove il ricamo e la tessitura vantano tradizioni antiche e persistenti.

Chanel. In qualche modo simile il sentiment espresso da Virginie Viard da qualche stagione alla direzione artistica di questa collezione. Charlotte Casiraghi ha aperto lo show facendo percorrere la passerella a un magnifico cavallo da dressage mentre Pharrell Williams e l’attrice Elsa Zylberstein sedevano in prima fila. Otre allo sfoggio di grandeur fortemente sottolineato anche qui è stato lo sforzo fatto per mantenimento di lavorazioni artigianali di altissima qualità, ovunque esse siano dislocate nel mondo.

Chanel si propone come un brand unico anche per il suo carattere conservatore: niente quotazione in borsa, e niente e-commerce per la maison di proprietà dei fratelli Alain e Gerard Wertheimer, nipoti di Pierre Wertheimer, uno dei primi soci in affari di Coco Chanel.  Celeberrimo però è il suo profumo Chanel No.5 appartenete alla galassia dei cosmetici venduti di buon grado in un online che ha visto il fatturato crescere del 113% nel 2020 e del 57% nel 2021. E qui forse che l’ottima brand reputation uscita dalla porta rientra dalla finestra.

Valentino (proprietà del fondo del Qatar Mayhoola for Investments). Diverso il caso di un brand come questo dove il direttore artistico Pierpaolo Piccioli viene identificato come un progressista. Per questa occasione ha dato vita a una presentazione intitolata “Anatomy of Couture” lavorando intono al rapporto esclusivo-inclusivo. Piccioli è sempre particolare attento agli stimoli che provengono pure da fuori il mondo rarefatto dagli atelier. 

Valentino

Nella cartella stampa diffusa per l’occasione si legge: «Il corpo, quello femminile in particolare, è insieme un dato di fatto materiale e un costrutto culturale i cui canoni di bellezza mutano attraverso i tempi, imponendo ora una tesa verticalità, ora una morbida orizzontalità, celebrando e preferendo certe parti dell’anatomia rispetto ad altre. (…) Guidato dall’urgenza di ripensare i rituali e i processi della Couture per creare un canone che rifletta la ricchezza e diversità del contemporaneo e promuova una bellezza senza assoluti, il Direttore Creativo Pierpaolo Piccioli immagina la Couture di Valentino non su una modella di Maison unica e ideale, ma su una varietà di donne, di fisicità, di età. Morbido e accogliente nell’afflato democratico, e insieme radicale nell’approccio che scardina processi noti, Pierpaolo Piccioli pensa alla collezione come costruzione corale che passa attraverso una composita armonia di tipi fisici e di abiti che li vestono, (…) Il messaggio non muta nello scopo, che è esprimere il bello, ma nella modulazione che unifica e accoglie». E non ci sono dubbi che ad esempio le modelle curvy o agè che sono qua e là apparse durante la sua presentazione siano un’indicazione fuori dal comune. 

Schiapparelli (proprietà separata di Diego Della Valle a sua volta presidente e amministratore delegato del gruppo Tods che comprende Tod’s, Hogan, Roger Vivier e Fay quotato in borsa a Milano). La libertà di movimento del suo direttore creativo anche qui appare decisamente maggiore che altrove. L’americano Daniel Roseberry sta ora alla guida di un di un nome divenuto celebre negli anni ’30 anche per il suo rapporto privilegiato con le avanguardie storiche del periodo e in particolare con Salvador Dalì.

Appaiono perciò coerenti le sue uscite in passerella fantasmagoriche (mai prive di un pizzico di ironia) dove l’abito è immancabilmente abbinato a bijoux giganteschi e scultorei in grado di trasformate l’intera silhouette di quelle che appaiono apparizioni da grande occasione. Di più: Roseberry sembra guardare piuttosto alla cultura pop – a super star contemporanee del cinema o della musica – piuttosto che a regine o aspiranti fatine. E difatti in poche stagioni si è affermato come un punto di riferimento per uscite genere red carpet di celebrità quali Lady Gaga, Adele, Cardi B o Julia Fox cin coppia con Kanye West. 

Jean Paul Gaultier (proprietà dello stilista tranne la divisone profumi appartenente alla spagnola Puig). Il marchio porta il nome di uno dei grandi maestri della moda dell’ultimo secolo che ha deciso a ritirarsi dalle scene nel gennaio del 2020. Mantenendo però vivi i suoi meravigliosi atelier e – cosa ancor più singolare – affidandone la direzione a giovani talentuosi designer a rotazione, in una sorta di residenza: modalità di norma appartenete al mondo delle arti figurative.

La collezione di questo gennaio l’ha affidata al belga Glenn Martens. E in questo caso (da Gaultier come da Martens) è arrivato un esercizio dove l’alta sartoria si è abbinata al divertimento. Martens ha ri-costruito uno degli highlights di Gaultier – il corsetto fianchi imbottiti, vita stretta – e ne ha fatto il centro della collezione. Poi esplosa con abiti da ballo in smeraldo e champagne, gonne modellate con montagne di filo metallico in modo da assomigliare a mari ribollenti e marinières (altro evergreen di Gaultier) in maglia irte di corallo.. si ’è trattato di un debutto nell’alta moda per Martens (che disegna pure Y/Project e Diesel) ma questa prova è facile prevedere che non sarà l’ultima …

Perché niente come la Haute Couture – per lo meno sinché continuerà a esistere – intreccia il sogno, la joie de vivre e la suprema destrezza che l’artigianato tessile può esprimere. Un mantra di sempre è quello secondo il quale la sua vera funzione è quella di essere un laboratorio utile a sviluppare tecniche in grado di informare le possibilità che i valori del prêt-à-porter, insomma un think tank dell’intero sistema moda.

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