Questo è l’editoriale di apertura del nuovo numero di Linkiesta Magazine con New York Times Turning Points 2022. Il volume di 232 pagine si può già preordinare qui, sullo store de Linkiesta.
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Non c’è giornale o show televisivo americano o cocktail party di Washington dove non si parli del tentativo di colpo di Stato in corso orchestrato da Donald Trump in vista delle elezioni del 2024, dopo la prova generale del 6 gennaio 2021, quando su sua esplicita indicazione alcune centinaia di arditi del movimento antidemocratico hanno preso d’assalto il Congresso, assediato i parlamentari e minacciato di impiccare il vicepresidente Mike Pence perché non aveva sposato in pieno la Grande Bugia trumpiana delle elezioni rubate da Joe Biden. Quella mattina sono morte cinque persone, sono stati feriti 138 poliziotti e settecento scalmanati sono stati arrestati.
Viviamo tempi così impazziti che un assalto alla democrazia più antica del mondo eseguito in diretta televisiva, con i deputati e i senatori costretti alla fuga o asserragliati dentro gli sgabuzzini di Capitol Hill, è diventato un caso di cronaca, non un pezzo di storia, non come un colonnello Antonio Tejero all’ennesima potenza e con riporto arancione, ma come una zuffa da condividere su Twitter, una sciocchezza, un modo contemporaneo di fare politica.
Tutto questo nonostante i fan antidemocratici di qua e di là dell’Atlantico provino a emulare lo spirito patriottico e suprematista dell’America first fascist rimosso dagli elettori.
Insomma, un colpo di Stato con metodi violenti e dispute legali è stato sventato e adesso le cronache raccontano che il golpe è ancora in corso, con l’esperienza di chi ci ha già provato una volta e con le attività legislative volte a sopprimere la democrazia in particolare negli Stati a maggioranza Repubblicana, dove i trumpiani hanno nominato funzionari lealisti nelle commissioni elettorali e dove hanno presentato regole che trasferiscono alle assemblee legislative il potere di nominare i delegati al collegio presidenziale nazionale che elegge formalmente il presidente degli Stati Uniti, togliendolo al semplice computo aritmetico dei voti.
Non è un’opinione, non è un fatto contestato, in un primo momento ha preso di sorpresa anche gli stessi familiari di Trump e i suoi maggiori complici nei media, visto che le loro email del sei gennaio lette al Congresso hanno dimostrato che perfino loro erano preoccupati dell’assalto a Capitol Hill e per questo supplicavano il presidente di fermarsi. Trump naturalmente non si è fermato, sono stati i suoi sodali ad allinearsi alla Grande Bugia e al colpo di Stato.
Tutto questo è stato raccontato nei minimi dettagli da formidabili articoli giornalistici come quello di Robert Kagan che pubblichiamo in questo numero o come quello di Barton Gellman sull’Atlantic.
Eppure nessuno fa niente. Ne parlano tutti, ma non interviene nessuno. Le commissioni della Camera timidamente ne chiedono conto all’ex staff di Trump, i procuratori mettono sotto processo la manovalanza del 6 gennaio, ma i feds non si presentano a casa dell’Eversore in chief per fermare il complotto contro l’America.
In mancanza di una presa di coscienza del Partito Democratico, maggiormente interessato a combattere battaglie a tutela dei pronomi percepiti che in difesa della democrazia, ci avviciniamo inesorabilmente a una catastrofe politica che potrebbe diventare irreversibile con le elezioni di metà mandato del prossimo novembre 2022, quando probabilmente il partito fascista di Trump conquisterà la maggioranza alla Camera e addio anche alle timide audizioni e alle cautele.
C’è una responsabilità politica del presidente Joe Biden in questa corsa verso il precipizio. Biden pensa così di non esacerbare gli animi, ma non è chiara l’utilità di non offendere la sensibilità di chi sta sovvertendo le regole democratiche e lo spirito repubblicano degli Stati Uniti.
La responsabilità è di Biden, ma il principale incosciente è l’Attorney General Merrick Garland, oggi il paracadute di Trump. Il ministro della Giustizia ha deciso infatti di non perseguire il palese attacco alla democrazia di Trump, per evitare di politicizzare l’apparato federale. Una decisione maldestra che poteva aver senso sull’attacco sventato del 6 gennaio, ma inspiegabile visto che il tentativo di golpe è in corso. Qui non si tratta di comportarsi diversamente da quanto ha fatto Trump a fine 2020 quando, forse in omaggio intellettuale a Putin, ha pensato di arrestare il suo rivale Biden semplicemente per evitare che lo cacciasse a calci nel sedere dallo Studio Ovale. Qui si tratta di fermare il secondo tempo del colpo di Stato.
Le forze dell’ordine hanno arrestato o messo sotto processo gli esecutori materiali dell’assalto al Congresso, senza occuparsi dei mandanti né di sventare le mosse successive che, come detto, stanno cuocendo con metodi legali, con nuove leggi e con la nomina di funzionari che al momento del conteggio dei voti non risponderanno alle scelte degli elettori, ma alle indicazioni dei capi bastone di Trump.
Mentre i Democratici riposano sereni perché si illudono che senza la Casa Bianca Trump non sia pericoloso, l’ex presidente sta preparando, ancora una volta alla luce del sole, la rivincita che non farà prigionieri. Ogni giorno, i grandi giornalisti d’inchiesta americani e gli opinionisti conservatori disgustati dall’autoritarismo egocentrico e cialtrone di Trump svelano i dettagli della preparazione meticolosa di ciò che si è visto in diretta a gennaio 2021, quando Trump e i suoi hanno tentato in tutti i modi possibili di tenersi la Casa Bianca da cui sono stati cacciati con un plebiscito per manifesta indecenza.
Le cronache raccontano che i trumpiani hanno provato a coinvolgere l’esercito, a piegare le regole costituzionali e le leggi statali a proprio favore, minacciando i funzionari pubblici che avrebbero dovuto ratificare il risultato elettorale a favore di Biden e scatenando le masse di fuori di testa contro chiunque si attenesse al semplice conteggio dei voti. Non ci sono riusciti, ma stanno lavorando perché nel 2024 ce la facciano.
Il movimento globale contro la democrazia liberale è nato quasi come una provocazione intellettuale nell’Ungheria di Viktor Orbán e poi è diventato il grimaldello di Vladimir Putin per indebolire l’Occidente. Gli elettori americani lo hanno respinto temporaneamente eleggendo Biden e la controffensiva si è diffusa ovunque, anche in Italia con l’allontanamento dal governo dei populisti e dei nazionalisti, ma adesso il movimento antidemocratico si sta riorganizzando.
Il 2022 sarà un anno decisivo, con la lenta uscita dal Covid, la ripresa economica e le tensioni con la Cina, ma lo sarà anche con il fronte interno. L’Italia avrà un nuovo presidente della Repubblica e non dovrà sprecare la formidabile capacità di governo di Mario Draghi, magari assieme alla Francia di Emmanuel Macron che dovrà respingere la minaccia nazionalista di Marine Le Pen e quella populista di Éric Zemmour.
Il campo principale del mondo democratico resta però l’America, la città splendente sulla collina, a prescindere di come vadano le elezioni di midterm a novembre. Ciò che conta, adesso, è trovare il coraggio di fermare l’ascesa al potere di un eversore, di tutelare lo stato di diritto e di salvare il mondo libero.
Questo è l’editoriale di apertura del nuovo numero di Linkiesta Magazine con New York Times Turning Points 2022. Il volume di 232 pagine si può già preordinare qui, sullo store de Linkiesta.