Ci sono i treni carichi di carri armati che affluiscono al confine fra Russia e Ucraina, l’arruolamento volontario nei villaggi di frontiera, l’evacuazione del personale non essenziale dalle ambasciate di Regno Unito e Usa a Kiev. Ci sono le trincee già scavate, le centinaia di migliaia di soldati già schierati dall’una e dall’altra parte, gli 8.500 militari statunitensi in stato di «allerta rafforzata» negli Stati dell’Est Europa e i circa 5mila effettivi della Nato pronti tra Polonia e Paesi baltici.
C’è stata anche una chiamata di emergenza tra il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, i vertici delle istituzioni dell’Unione europea e i capi di governo dei grandi Paesi europei: tutti concordano sulla serietà della situazione. Al di là delle possibilità reali di un’imminente invasione russa dell’Ucraina, i leader occidentali si stanno preparando ad ogni evenienza.
L’Unione europea, però, lo sta facendo con una linea ancora piuttosto attendista rispetto al contesto. L’ultima riunione dei ministri degli Affari Esteri, lunedì 24 gennaio, si è conclusa con una decisa presa di posizione a parole, ma nessun effetto concreto. «Ogni ulteriore aggressione militare avrà massicce conseguenze e costi severi», si legge nel comunicato ufficiale dell’incontro: una linea dettata dall’ultimo Consiglio europeo a dicembre e ribadita anche il giorno successivo alla riunione sia dalla Commissione che nell’incontro tra il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente francese Emmanuel Macron.
Non è facile, però, stabilire quale sia la “linea rossa” per gli europei, cioè il punto di non ritorno nell’azione russa che scatenerebbe un’effettiva risposta da parte di Bruxelles. «Si ripropone in chiave europea la questione avanzata da Biden qualche giorno fa: un’incursione limitata è assimilabile o no a un’invasione in piena regola?», dice a Linkiesta Eleonora Tafuro Ambrosetti, esperta di Russia, Caucaso e Asia Centrale all’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi). «Ovviamente l’Ucraina – aggiunge – spinge per una risposta forte a ogni tipo di interferenza: ma nei fatti una guerra ibrida è già in corso, con la presenza di consiglieri militari russi nel Paese».
Non a caso, parlando dell’intelligence del suo Paese, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha detto di recente che «è giunto il momento non solo di scoraggiare, ma anche di lanciare azioni offensive nel difendere gli interessi nazionali».
L’Europa divisa
Alle pressioni ucraine e a quelle statunitensi l’Unione europea mostra una certa resistenza. O meglio, un «fondamentale disaccordo interno sull’approccio verso il Cremlino», spiega la dottoressa Tafuro Ambrosetti.
I fautori di una linea dura sono, in questo caso, i Paesi dell’Est europa: la Polonia e le repubbliche baltiche nate dalla dissoluzione dell’Unione sovietica nel 1991. «Uno degli argomenti utilizzati è che la Russia sfrutta la “cultura del dialogo” occidentale per raggirare l’Unione», afferma l’esperta.
Come ha scritto su Twitter la prima ministra estone Kaja Kallas, «la Russia capisce il linguaggio della forza, che possiamo dimostrare se restiamo uniti e fermi nel difendere i nostri valori. Dobbiamo supportare l’Ucraina in ogni modo». Un auspicio che si accompagna a quello di un maggiore afflusso di soldati americani sul suo territorio, rivelato in un’intervista al Financial Times. «Nessuno può bullizzarti se hai degli amici grandi e grossi: la più grande azione di deterrenza nei confronti della Russia è una bandiera statunitense».
Thank you for the call Spanish PM @sanchezcastejon! I said that #Russia understands strength, which we can demonstrate if we are united as allies & make a firm stand for our principles & values. #Ukraine is not alone & we must support them in all ways.
— Kaja Kallas (@kajakallas) January 25, 2022
Mentre l’Europa orientale è più propensa a fare la voce grossa, quella occidentale sembra preferire il dialogo con Mosca.
In particolare è la Germania a perseguire un atteggiamento moderato. Il governo di Berlino ha impedito l’export delle armi di propria fabbricazione verso l’Ucraina, è contraria all’esclusione di Mosca dal circuito di pagamento Swift (una delle possibili sanzioni sul tavolo) e mantiene in stand-by il gasdotto Nord Stream 2, al momento non operativo, senza escluderne esplicitamente l’utilizzo in futuro.
Ma non è solo la Germania a mantenere il freno in azione: Francia e Italia sono fra i Paesi più propensi a una soluzione diplomatica, secondo l’esperta.
Il dialogo con la Russia non è solo un’opzione, è l’unica opzione, come ha ribadito il presidente Emmanuel Macron a Strasburgo la settimana scorsa, nel discorso inaugurale della presidenza di turno francese del Consiglio Ue. Anche il governo di Roma, l’unico a essere rappresentato da un ambasciatore e non da un ministro o un sottosegretario all’ultima riunione del Consiglio, tiene un approccio pragmatico fondato, secondo Tafuro Ambrosetti, su una storia di collaborazione economica molto stretta.
Pesa molto su questa posizione, la fornitura di gas russa, che corrisponde a oltre il 40% del fabbisogno italiano: il governo dunque non ha interesse ad acuire i problemi energetici rischiando un’interruzione dei flussi.
Ma conta anche il ruolo storico di mediatore che il nostro Paese ha assunto in passato, in altri contesti e con alterne fortune: «L’Italia è una potenza media, senza il peso degli Stati Uniti o della Germania in Europa: la mediazione è stato un marchio di fabbrica della sua politica estera e la Russia stessa ci vede come Paese “amico”, seppur schierato saldamente nell’alleanza nord-atlantica».
Un discorso analogo può essere applicato all’atteggiamento di altri Stati europei, che poggia in parte su basi economiche – la Russia è la prima fornitrice di combustibili fossili dell’Unione – e in parte su ragioni storiche e politiche. «Gli interessi sono innegabili, così come i tentativi delle lobby delle imprese di plasmare la politica estera dei rispettivi governi. Ma vanno analizzati anche i rapporti che i singoli Paesi hanno con Mosca».
Il risultato è una «profonda divisione» fra i membri dell’Unione, che traspare dietro i proclami di unità di intenti affermati a più riprese nel Consiglio. Così l’azione dell’Unione europea si limita, per ora a parole e soldi: le rassicurazioni di una «risposta veloce a livello internazionale» in caso di attacco all’Ucraina date dall’Alto rappresentante europeo per gli Affari Esteri Josep Borrell e lo stanziamento di 1,2 miliardi di euro come «assistenza macro-finanziaria» per il governo di Kiev, proposto dalla Commissione europea.
Esitazione nelle sanzioni
Nessuna misura deterrente, invece, contro la Russia. Vero è che un pacchetto di sanzioni è in realtà già in atto, dal 2014: colpisce vari settori dell’economia russa, 185 individui e 48 entità considerate responsabili dell’annessione della Crimea e vieta le importazioni dalla regione e gli investimenti delle banche dell’Unione europea (Banca europea per gli investimenti e Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo) in tutto il Paese.
«Ai tempi fu uno choc per il Paese, perché coincisero con un calo dei prezzi del petrolio in un’economia poco diversificata e dinamica», sottolinea Eleonora Tafuro Ambrosetti. «Il collasso venne evitato solo grazie ad alcune decisioni macroeconomiche, prese anche a discapito del benessere dei cittadini».
Le sanzioni, però, sono dolorose sia per chi le riceve che per chi le impone: l’esclusione della Russia dal sistema Swift, ad esempio, potrebbe avere delle grosse implicazioni anche per chi acquista il loro gas, spiega l’esperta. Per questo fanno paura, a Mosca e nelle altre capitali europee.
Bruxelles, inoltre, vorrebbe limitare l’incidenza delle sue misure punitive sulla popolazione russa, colpendo invece i responsabili politici della situazione attuale: ma è tanto più difficile quanto più ampio è il raggio delle sanzioni stesse.
La strategia attendista potrebbe apparire allora la scelta più pragmatica da perseguire, anche perché al momento la maggior parte degli analisti non ritiene probabile un attacco militare in piena regola da parte della Russia, cosa che vedrebbe tra l’altro la contrarietà di larga parte della propria opinione pubblica.
Come ha scritto il direttore del Carnegie Moscow Center Dmitri Trenin, uno dei più quotati esperti in materia, l’obiettivo di Vladimir Putin è piuttosto quello di «riformulare il concetto di sicurezza nell’Europa dell’Est», rendendolo di nuovo un affare da negoziare di volta in volta tra Russia e Stati Uniti, dopo anni di incontrastato dominio americano nella regione. A questo punto della storia europea, sembra in grado di riuscirci.