Passi il silenzio del movimento delle donne, e altrettanto dei media tanto politically correct, che quando si tratta di violenza arabo-islamica si distraggono sempre, ma è tutto il mondo politico che oggi perde una grossa occasione, quantomeno di riflessione, sul gravissimo episodio delle violenze e dei tentati stupri di un gruppo di giovani di origine araba su una decina di ragazze durante il capodanno a piazza Duomo a Milano.
Le indagini confermano che erano tutti italiani figli di immigrati arabi i componenti del gruppo di giovani che ha assalito con violenza una decina di ragazze per palparle ovunque per poi essere fermati prima che facessero altro. Esattamente come a Colonia e in altre città europee nel capodanno del 2015. Allora, almeno, vi fu un po’ di scandalo in Italia. Oggi nulla. Eppure, è l’ennesimo episodio che ci impone, o meglio ci imporrebbe, di prendere atto che l’immigrazione arabo islamica pone dei problemi gravi e specifici riguardo alla violenza sulle donne. E non solo.
Problemi gravi perché non si tratta di comportamenti e di violenze che fino a pochi decenni fa erano presenti anche in Italia, branco incluso. Il punto è che il sopruso sulla donna non è solo parte di una ancestrale cultura machista, che è stata anche nostra. Il dato scabroso è che per gli islamici il sopruso sulla donna è codificato nella legge religiosa a chiare lettere. Non nella morale religiosa praticata, come fu per ebrei e cristiani sino a pochi decenni fa, ma proprio nelle norme specifiche e attuali della sharia.
La minorità della donna rispetto all’uomo parte dall’obbligo del cosiddetto velo, perché non è capace, non sarebbe in grado di gestire i segnali sessuali ed erotici che emana il suo corpo, che passa al divieto della musulmana (ma non per il musulmano) di sposare il cristiano o l’ebreo perché la sua minorità morale e intellettuale la porterebbe di sicuro alla conversione, all’apostasia (peccato più grave rispetto all’omicidio per la sharia), norma alla base di vari femminicidi in Italia, che continua col ripudio del maschio, ma che è impossibile per la donna, che si sviluppa con il valore dimezzato che ha la sua testimonianza in tribunale rispetto a quello dell’uomo. Questo si predica e si impone in alcune moschee in Italia e si pratica in molte, troppe famiglie islamiche nel nostro paese.
In questo contesto arriva oggi l’assalto sessuale del branco a una decina di giovani donne che in arabo ha un suo nome preciso: tarrush gamea, molestia collettiva. Un fenomeno codificato e recente, nato e cresciuto nei paesi islamici pochi decenni fa come palese reazione alla emancipazione in atto delle donne musulmane.
Dunque, un gravissimo problema, non di costumi ancestrali e arretrati, che evolveranno, come sono evoluti in Italia, ma di una legge religiosa, la sharia, che codifica nettamente e chiaramente l’inferiorità della donna per due milioni e mezzo di musulmani immigrati in Italia. Una inferiorità che può generare la cultura del branco stupratore.
In Francia questo problema è tanto chiaro che due anni fa fu il liberale e progressista Emmanuel Macron ad aprire la campagna per le presidenziali mettendolo al centro della sua denuncia. Di conseguenza a Parigi è stata varata una legge contro il separatismo e per il rispetto delle norme costituzionali contro alcune norme shariatiche, sono state chiuse per via amministrativa e non della magistratura decine di moschee dalla predicazione fondamentalista ed è stata avviata una complessa trattativa con le organizzazioni islamiche per arrivare a un inquadramento controllato degli Imam e, infine, sono stati messi fuori legge comportamenti sociali islamici di discriminazione delle donne.
La stessa candidatura con carature xenofobiche di Eric Zemmour ha origine in un disagio diffuso, anche tra i giovani, sul tema della identità nazionale messa in discussione dallo choc della immigrazione e delle tante prevaricazioni shariatiche registrate dalle cronache francesi.
Nulla, assolutamente nulla si è invece mosso, neanche un dibattito, in una Italia nella quale si finge che i due milioni e mezzo di islamici si siano perfettamente integrati.
Ma qui è il punto: integrazione non vuole dire nulla, o quasi. Il punto vero e dolente è l’assimilazione. Mi spiego: la famiglia islamica di Saman Abbas, la giovane pakistana uccisa a Pordenone perché aveva rifiutato un matrimonio combinato, era ed è perfettamente integrata. Così le famiglie di Hina Saleh e Sana’a Dafani, uccise dal padre perché fidanzate con un italiano. Così le decine di ragazze musulmane in Europa vittime di femminicidi shariatici, come attestano lo Spiegel e il Consiglio Europeo. Tutte queste famiglie avevano e hanno regolari permessi di soggiorno, pagavano e pagano le tasse, mandavano e mandano le figlie nelle scuole. Integrate dunque. Sicuramente sono perfettamente integrate anche le famiglie islamiche dei ragazzi del branco violento di Milano e loro stessi lo sono, cursus scolastico regolare incluso. Ma integrazione non vuol dire per nulla assimilazione, condivisione di principi fondamentali fondanti delle nostre società.
Per essere chiari: assimilazione piena è quella delle comunità ebraiche, che rispettano e praticano non solo la propria fede, ma anche la propria legge religiosa che dal 1600 in poi è stata reinterpretata dal diffuso movimento illuminista e razionalista della Haskalah e armonizzata in pieno con i principi fondanti delle democrazie piene, diritti delle donne in primis. Col che il Levitico, il testo biblico delle norme e prescrizioni non dissimili in certe parti dalla legge shariatica, è stato scomposto, attualizzato, superato.
Questa razionalizzazione e modernizzazione non ha toccato, se non marginalmente, la sharia e l’Islam. Solo in Tunisia e in Marocco ci si è avviati, con prudenza e resistenze, su questo cammino, in un processo che però coinvolge solo gli strati sociali più alti della popolazione.
Dunque, se si vuole impedire che questa estraneità e conflittualità con i principi democratici della sharia praticata inneschino in Italia fenomeni di rifiuto, di razzismo e di xenofobia c’è una sola strada: aprire a tutti i livelli una stagione di dibattito sulla assimilazione degli immigrati e sulla prevalenza dei principi e delle norme della Repubblica sulle norme shariatiche. Esattamente come si fa con vigore in Francia. Un dibattito sulla cittadinanza, insomma, sul suo significato reale e pieno. Ben prima che sugli automatismi meccanici dello ius soli. Senza dimenticare che buona parte dei ragazzi del branco del capodanno al Duomo di Milano sono cittadini italiani di seconda, addirittura terza generazione. Di nuovo, cittadinanza non vuol dire assimilazione.