Comunque la si pensi nel merito, Carlo Calenda voleva costruire un partito e ce l’ha fatta: non è proprio una cosa di tutti i giorni. Lasciamo stare i sondaggi. Il fatto è che Azione sabato e domenica a Roma ha tenuto un congresso con tanti delegati, ospiti, discorsi e insomma ha dimostrato di essere un soggetto politico. C’è già l’intesa con +Europa, ed è il solo fatto unitario che si registri nella politica italiana. Applaudita, Emma Bonino dal palco: «Carlo, non hai esperienze di partiti, posso farti gli auguri. Io ce l’ho da 40 anni e più i partiti sono piccoli e più sono litigiosi, non il contrario. Ognuno ha le sue ambizioni, ammantate da grandi questioni ideali. Ma io sono pronta».
Di tanti segmenti e segmentini dalla grossa area fuori sia dall’asse Pd-M5s sia dalla destra, il nuovo partito di Calenda appare la cosa più solida, in attesa di capire il futuro di Italia viva (che terrà l’assemblea nazionale il 26 con un Matteo Renzi al contrattacco dopo il colpo mortale all’inchiesta Open inferto dalla Cassazione). Per il resto, al centro c’è il solito spettacolo di tira e molla, aperture e litigi, chiacchiere e distintivo, i distinguo di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro. Finché qualcuno si stancherà e farà qualcosa di più concreto.
Si segnalano le mosse di Gianfranco Librandi, facoltoso imprenditore renziano, che vorrebbe fare qualcosa in grado di superare le litigiosità riformiste – pare ci sia anche un nome: “Italia c’è” – che è poi più o meno quanto propugna Calenda, che immagina la sua Azione appunto come un contenitore riformista e antipopulista aperto a gente come Carlo Cottarelli e Marco Bentivogli (molto applauditi al congresso), un partito aperto e contendibile, come ha voluto rimarcare l’ex ministro. Le ambizioni ci sono, pure alte (20 per cento), c’è un gruppo dirigente, c’è la vis per molti troppo accesa di Calenda, e c’è pure lo spazio politico. Si vedrà.
Ma la questione che tiene banco è ancora quella della compatibilità del M5s con il riformismo. Per Calenda è un ossimoro. Il ragionamento è difficilmente confutabile: come può il partito dell’antipolitica allearsi con il riformismo liberale e progressista che, almeno secondo i suoi seguaci, è il massimo della politicità intesa come ricerca delle soluzioni in vista del miglioramento della vita delle persone e della società? Ecco perché il leader di Azione pone a Enrico Letta la questione della rottura con Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, e non è neppure una pregiudiziale classica quanto una constatazione logica: l’incompatibilità è nelle cose.
Però il segretario del Pd da quell’orecchio non ci sente, continuando a muoversi dentro la logica del bipolarismo con lo schema del “campo largo” allo stesso modo della “gioiosa macchina da guerra” dell’Occhetto versione 1994: tutti insieme per prendere un voto più del centrodestra. È dentro questo match che Letta fa ponti d’oro a Calenda (è anche un ditino nell’occhio di Renzi) e al tempo stesso continua ad accarezzare il M5s, tuttora visto come il principale alleato di una “coalizione” che non esiste. Il numero uno del Pd è evidentemente persuaso di una naturale evoluzione del quadro politico che, senza fare nulla per determinarla, confida che si realizzerà da sé, come una pallina scende su un piano inclinato, dentro una visione positivistica della vicenda italiana che, superata la fase hard del sovranismo e del populismo e passata per la transizione draghiana, non potrà che sboccare nell’avvento di un nuovo centrosinistra verosimilmente da lui guidato.
Il punto curioso è che sia Calenda, con la centralità che egli assegna alla questione grillina, sia Letta, con la sua statica concezione dell’alleanza strategica, conferiscono a un M5s palesemente in declino un ruolo che in natura, cioè nella società, non ha più. E da questo punto di vista nel Pd non strettamente lettiano qualche segno di novità si registra. Non è un caso se il massimo teorico dell’abbraccio con Giuseppe Conte, Goffredo Bettini, guardi già oltre, peraltro in modo non chiaro (addirittura alla Lega). Così anche Dario Franceschini, che si rende conto della marginalità politica, e presto anche elettorale, dei grillini. E si nota che la stessa sinistra del Pd, sin qui così affine a certe istanze grilline nonché alla figura dell’avvocato del populismo (in reazione a quel Draghi voluto fortemente da Renzi), ha mollato lo “zingarettismo” dei bei tempi dell’alleanza strategica e del Conte “punto di riferimento”, puntando, come ha detto Peppe Provenzano, a lavorare su di sé più che andare appresso a Conte.
Conoscendo Letta, è chiaro che egli continuerà sulla linea del “piano inclinato” e dell’inerzia mirando a tenere dentro tutto, senza strappi. Meno chiaro è perché nessuno nel Pd tra i non pochi che nutrono dubbi su una linea così poco dinamica voglia aprire una discussione seria sulla prospettiva politica a lungo termine. Oggi si tiene la Direzione da dove uscirà l’orientamento di votare due “no” ai referendum sull’abolizione della legge Severino e sulla custodia cautelare mentre sugli altri tre si confida nel loro superamento grazie all’approvazione della riforma Cartabia. Ma sulla linea politica non si attendono sconvolgimenti. Al massimo qualche domanda al segretario sulla strategia, sarebbe già qualcosa.