C’è qualcosa che unisce la bella e giusta iniziativa di Carlo Calenda di far nascere un vero partito liberal-progressista italiano e le tensioni politiche e militari al confine dell’Europa. Questo qualcosa è lo scontro locale e globale tra i sostenitori della democrazia liberale e quelli dell’autoritarismo nazionalpopulista.
Nel suo nuovo saggio, The Revenge of Power, Moises Naím spiega che ciò che sta avvenendo a ogni latitudine del pianeta è un attacco concentrico allo stato di diritto in seguito all’adeguamento delle forze autoritarie al nuovo mondo decentralizzato: «Il populismo spesso viene scambiato per un’ideologia, ma non lo è. Il populismo è più un ventaglio di tattiche, di trucchi e di strategie per ottenere o mantenere il potere. Spesso è usato assieme alla polarizzazione che semina e amplifica le divisioni nella società e anche alla post verità».
Le tre P, populismo, polarizzazione e post verità, non sono fenomeni nuovi, ma l’insieme degli strumenti con cui i nemici della società aperta stanno reinventando la politica del XXI secolo, grazie anche a una certa compiacenza delle élite. Anche le élite sono alla ricerca disperata di riconquistare il potere perduto in questi anni di frammentazione e, per provarci, spesso si servono di questi strumenti e dei populisti.
La sfida di Calenda, di Matteo Renzi e di altri per costruire un’alternativa al bipopulismo italiano aperta alle forze liberal progressiste, senza compromessi con i maoisti digitali a Cinquestelle e con i neo, ex, post fascisti di osservanza leghista e meloniana, è legata alle questioni internazionali da molte ragioni, la prima delle quali è quella di evitare la saldatura tra le forze illiberali, nazionaliste e anti europee che riconoscono in Putin il loro leader, e fino a ieri Trump, e nell’Ungheria e nella Polonia esempi da seguire.
Isolare il partito di Conte e di Di Battista che flirtava con Trump e Putin, oltre che con la Cina e il Venezuela, e sosteneva l’annessione russa della Crimea e si piegava alle richieste dei cinesi e dei ceffi di Trump, e dall’altra parte prendere le distanze dagli amici destrorsi del Cremlino, di Viktor Orbán, di Eric Zemmour e di Steve Bannon è il primo passo per difendere la Repubblica e la pace, l’Unione europea e il mondo libero, anche dagli errori commessi dall’establishment europeo e americano che negli ultimi trent’anni ha dato per assodata e pacifica la vittoria della democrazia liberale sulle dittature e non si è più impegnata in quella faticosa opera di semina democratica necessaria a mantenere feconda la società aperta.
La democrazia non è una condizione inesorabile e naturale, purtroppo, ma una realizzazione artificiale che richiede un impegno costante.
Il compito dei democratici e dei liberali, ha scritto David Brooks sul New York Times, non è solo quello di occuparsi di chi sta demolendo la democrazia, ma anche di chi la sta costruendo.
Calenda è stato criticato da Romano Prodi perché al Congresso di Azione ha detto che Ungheria e Polonia non meritano di stare nell’Unione europea, a causa delle loro ripetute violazioni dello stato di diritto. Secondo Prodi, l’allargamento a Est dell’Europa è stata una delle grandi conquiste democratiche degli ultimi anni, come dimostra l’evidente preoccupazione di Putin che i russi si accorgano di un modello liberale funzionante alle porte di Mosca. Questa, infatti, è la ragione prima delle tensioni al confine ucraino: la democrazia e l’Europa liberale sono una minaccia pubblica per i regimi autoritari come quello russo, ma è altrettanto vero che un’Europa con i governi nazionalisti di Ungheria e di Polonia impegnati quotidianamente a indebolire le fondamenta dell’Unione non può funzionare.
L’Ungheria è filorussa, la Polonia no, ma entrambi sono i paesi più favorevoli all’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea perché sperano di poter contare, in caso di ingresso di Kiev in Europa, su un altro paese nazionalista e così rinsaldare l’asse di resistenza autoritaria a Bruxelles.
Nei giorni scorsi, in Lussemburgo, la Corte di Giustizia europea ha respinto il ricorso di Ungheria e Polonia contro il meccanismo che subordina il beneficio dei contributi europei al rispetto dello Stato di diritto.
Ora Ungheria e Polonia minacciano come rappresaglia di bloccare ogni attività dell’Unione su cui è necessaria l’unanimità dei paesi membri.
Delle due l’una: o si cambia il meccanismo decisionale dell’Europa, abbandonando la strada dell’unanimità a 27, oppure se lo si vuole mantenere è necessario che gli Stati membri condividano perlomeno i pilastri della convivenza democratica (e quindi ha ragione Calenda, non Prodi).
È l’autoritarismo il problema. Sono i metodi populisti il pericolo. In Europa, in Ucraina e in Italia.