Un’altra pietra miliare dell’alpinismo porta la firma degli italiani. Matteo Della Bordella, insieme a David Bacci e Matteo De Zaiacomo “Giga”, il 25 gennaio ha aperto una nuova via sul Cerro Torre, in Patagonia. Una vetta non certo altissima (siamo a 3128 metri sul livello del mare) ma tra le più affascinanti e ostiche al mondo per via della sua ripidezza e del clima ostile che la circonda. L’impresa, però, è stata funestata da un incidente mortale. Nel corso della scalata, a ridosso della vetta, Della Bordella e soci hanno incrociato un’altra spedizione, quella di Thomas Aguilo “Tomy” e Corrado Pesce “Korra”, intenti ad aprire a loro volta una nuova strada verso la cima del Cerro Torre. Le due squadre si sono separate per la discesa. «Tomy e Korra avevano pianificato la discesa notturna (per ridurre al minimo il pericolo di crolli e scariche) lungo la parete Nord», si legge nel report di viaggio di Della Bordella. «Noi invece abbiamo pianificato di bivaccare in cima e quindi scendere il giorno successivo lungo lo spigolo Sud Est, la cosiddetta “via del compressore”. Loro provano a convincere noi a scendere insieme a loro, noi viceversa proviamo a convincere loro a scendere con noi, ma tutti decidono di rispettare le proprie originarie intenzioni».
Ma, mentre la spedizione di Della Bordella arriva incolume al campo base, quella di Tomy e Korra viene travolta da una scarica di rocce e neve. «Una volta in vetta, pensavo che la salita più importante della mia vita si fosse appena conclusa – racconta al telefono Della Bordella, ancora in Patagonia – e invece stava per iniziare». L’alpinista, appena saputo dell’incidente occorso ai suoi colleghi, decide di guidare la missione di soccorso, nonostante la fatica per l’impresa appena compiuta. «Ero l’unico che conosceva bene la zona dell’incidente, quindi ho scelto di salire sebbene fossi allo stremo delle forze. Volevo mettere in salvo i nostri amici. Era la prima volta che mi capitava di fare da soccorritore». La squadra riesce a mettere in salvo Tomy, mentre per Korra non c’è nulla da fare. «Non conoscevamo la posizione esatta, non ricevevamo alcun segnale. Siamo rimasti ore in quota, ma a un certo punto ho iniziato a sentire voci nella mia testa e le forze venir meno e ho dovuto rinunciare. Stando a quanto ci hanno detto i medici, non saremmo in ogni caso riusciti a portarlo in salvo. Da un lato, il fatto di essere riusciti a raggiungere e portare in salvo Tomy è stata la più bella conquista, il più bel risultato che si possa desiderare, che vale di più di ogni salita: abbiamo salvato la vita di una persona. Per Korra ci siamo spinti al di là anche del ragionevole limite, più di così non si poteva fare. Tomy ci aveva comunicato che si trovava 300 metri sopra di lui e in condizioni estremamente gravi, tuttavia né tramite droni, né tramite i binocoli, nessuno durante la giornata è stato in grado di localizzarlo. Abbiamo aspettato fino alle tre di notte, non avevamo indicazioni su cosa fare, siamo rimasti lì solo in due (l’altro era l’alpinista svizzero Roger Schali, ndr), al freddo, senza materiale: avevamo una sola corda a disposizione. Non era proprio nelle mie capacità fisiche riuscire ad andare avanti. Rinunciare alle ricerche è stata una scelta obbligata e molto sofferta».
L’incontro con Tomy e Korra, ancorché fortuito, ha dato un significato più alto all’impresa. «È stato qualcosa di speciale, una sorpresa bellissima. Il fatto di aver condiviso con loto gli ultimi momenti della scalata è stato meraviglioso. Era da tre anni che entrambe le cordate cercavano di aprire una nuova via sul Cerro Torre, da tanti punti di vista la montagna più difficile del mondo da scalare: sebbene non abbia una quota elevata, è molto ripida, a strapiombo, e da qualsiasi versante tu provi a scalare oppone difficoltà tecniche estreme. Il Torre è stato al centro dell’alpinismo negli ultimi 70 anni: già di per sé il fatto di aprire una via nuova su questa montagna è da considerarsi un qualcosa di importante, una pietra miliare per la nostra disciplina. Devi essere uno scalatore tecnicamente molto bravo per affrontarla, richiede proprio doti diverse da quelle canoniche, le pareti sono a picco. Il versante da noi affrontato è quello più lungo e più impegnativo della montagna stessa: siamo stati i primi a percorrere una via nuova in un tempo così breve, in tre giorni. C’erano altre due vie su questo versante, ma erano state aperte nel corso di mesi, con grandi cantieri e tanti materiali: la sfida era partire dalla base e arrivare in cima in un sol colpo, con poche attrezzature, in stile alpino».
L’alpinista italiano aveva puntato a questa impresa da tempo. La squadra originale, oltre a Della Bordella, era composta da altri due “Matteo”, Matteo Bernasconi e Matteo Pasquetto: di qui il nome di “Cordata dei tre Matteo”. Gli altri due, però, non hanno potuto prendere parte alla spedizione perché scomparsi entrambi nel 2020: Bernasconi sotto una valanga, poco dopo la fine del primo lockdown, Pasquetto sul Monte Bianco, davanti agli occhi di Della Bordella, dopo aver completato l’apertura di una nuova via di grande spessore sulle Grandes Jorasses. «Non abbiamo potuto partire tutti assieme, tre anni fa, perché per una cosa così grande, così importante, si devono allineare tantissimi fattori. Nelle due stagioni in cui avevamo provato l’approccio insieme agli altri due Matteo c’era sempre qualcosa che non andava. La prima volta, con Matteo Pasquetta, avevamo fatto un bel tentativo, ma dopo aver percorso più di metà della via ma il brutto tempo ci aveva respinti. La seconda volta, con anche Matteo Bernasconi, il tempo era buono ma la montagna non era in condizioni ottimali: era tutta ghiacciata e non era possibile proprio salire. Dietro queste spedizioni c’è un percorso di preparazione, anche di corteggiamento, che dura anni: non sei tu a dire “domani vado e scalo”, dipende in primis dalla montagna, poi dalla tua preparazione e da tantissimi fattori che purtroppo si sono allineati solo quest’anno. La nuova via, in onore di Korra, dei due Matteo e di tutti i nostri fratelli che sono mancati sulle montagne che tanto amiamo, si chiama Brothers in arms».
Imprese come questa, però, potrebbero essere sempre più rare. Colpa del cambiamento climatico, che sta alzando la temperatura terrestre e modificando in modo significativo l’equilibrio su cui si reggono gli ecosistemi montani. «L’effetto che questo fenomeno crea sul nostro mondo è significativo, anche se è sbagliato fare generalizzazioni. Nel caso di Korra e Tomy, per esempio, la sfortuna ha giocato un ruolo preponderante – precisa Della Bordella – però non si può negare che il cambiamento climatico abbia il suo impatto su questo genere di eventi, sulle scariche e sulle valanghe: fa più caldo, una volta queste cose succedevano molto meno. Ci sono sempre state, ma è chiaro che il cambiamento climatico peggiora questo genere di eventi in modo notevole: lo si vede nella vita di tutti i giorni con alluvioni, frane e quant’altro, sulle montagne lo si vede ancora di più. Ogni montagna è a sé, ma con l’innalzarsi della temperatura media aumentano i pericoli, e forse imprese come questa saranno sempre più difficili da portare a compimento».