Ad aprile del 2014, poche settimane dopo il leak telefonico di Victoria Nuland e il caso Jason Gresh in Ucraina, l’Ira diede il via al “progetto traduttori”, un nuovo dipartimento dedicato agli Stati Uniti. Lo staff del “dipartimento americano” era giovane: vestiti alla moda, pettinature ricercate, barbe, occhiali con le montature spesse, l’iPhone sempre in mano durante le pause sigaretta. Un ex troll li descrisse come “hipster”. Il loro obiettivo era stato definito in un documento interno: «Diffondere la sfiducia nei candidati e nel sistema politico in generale».
Cominciarono a seguire le notizie relative alle presidenziali 2016 sulla stampa e i social media americani. Quattro troll master richiesero i visti per gli Stati Uniti, ma solo due li ottennero. Due donne dell’Ira viaggiarono così per tre settimane tra Nevada, California, New Mexico, Colorado, Illinois, Michigan, Louisiana, Texas e New York per conoscere meglio il proprio obiettivo e scattare foto da usare nei post sui social. Al ritorno stilarono un rapporto interno.
Le attività in inglese dell’Ira cominciarono ad accelerare, fino a decollare alla fine del 2014. I dipendenti venivano ancora pagati in contanti e gran parte dell’attività era ancora incentrata sull’Ucraina orientale. I contenuti arrivavano direttamente dall’alto. I blogger del terzo piano scrivevano falsi reportage, fingendo talvolta di trovarsi in Ucraina, e li passavano al piano di sotto per i commenti.
Era una sorta di fabbrica dall’aria surreale. L’edificio era sottoposto a stretta sorveglianza e gli impiegati dovevano consegnare il passaporto. Nei corridoi regnava il silenzio, a parte il suono delle dita sulle tastiere. «Mi sono sentito subito un personaggio di 1984» ha ricordato Marat Mindiyarov, impiegato nella fabbrica dei troll dal novembre del 2014 al febbraio del 2015, che ha descritto il suo luogo di lavoro come «un posto dove devi scrivere che il bianco è nero e il nero è bianco». Lavorava nel reparto dedicato ai commenti sui siti dei giornali o sui loro social media. «Eravamo in una fabbrica che trasformava le bugie in una catena di montaggio».
Proprio come una grande industria, l’organizzazione prevedeva turni di dodici ore e aveva aumentato la produzione; le “nuove norme”, ha spiegato Mindiyarov, prevedevano 135 commenti da 200 battute per ogni turno.
I lavoratori dei diversi piani non si incontravano mai all’interno dell’edificio, e interagivano soprattutto nelle pause sigaretta, per il caffè o all’ora di pranzo. «Magari lavoravi lì per un anno e mezzo al pianoterra inventando fake news e non chiacchieravi mai con qualcuno che doveva commentarle», ha ricordato un altro ex dipendente ventiseienne.
L’Ira pagava poco e i risultati che presentava sembravano convincere i finanziatori. Continuava ad ampliarsi sempre più in fretta, e inoltre serviva a sperimentare nuovi sistemi. Nella primavera del 2015, molti dipendenti entusiasti si radunarono al secondo piano davanti a un monitor per osservare le riprese dal vivo provenienti da una piazza di New York. Qualche giorno prima, l’Ira aveva messo online un “test balloon”, un post su Facebook che prometteva hot dog gratis: non serviva altro che presentarsi al posto giusto al momento giusto. Qualche newyorkese effettivamente si presentò, diede un’occhiata intorno, controllò il proprio telefono, e dopo essersi reso conto che non c’era alcun hot dog, alzò i tacchi.
A più di seimila chilometri di distanza, i troll non riuscivano a trattenere la felicità. Lo scopo di quello scherzo era capire se fossero in grado di organizzare eventi a distanza. «Stavamo facendo una verifica», avrebbe spiegato in seguito uno di loro a un giornalista d’inchiesta. «È stato un successone». A marzo, l’organizzazione cercava «operatori Internet (turno di notte)» che parlassero un inglese fluente. L’arsenale dell’Ira ormai prevedeva video, meme, infografiche, articoli, interviste e statistiche, oltre a qualche falso evento.
Nel giugno del 2015, il New York Times rivelò ai suoi lettori l’esistenza “dell’Agency” con un articolo che riscosse molto successo. Scritto dal giornalista Adrian Chen, il pezzo cominciava con la descrizione di una fake news architettata a San Pietroburgo su un’esplosione chimica in Louisiana alla fine del 2014: «Un certo Jon Merritt ha twittato: “A Centerville, in Louisiana, c’è stata una poderosa esplosione che si è sentita a miglia di distanza #ColumbianChemicals”».
L’articolo del Times faceva ripensare, senza volerlo, a come il giornale si era occupato della prima grande campagna di disinformazione americana nell’aprile del 1930 e alle falsificazioni di cui fu vittima Grover Whalen. Come all’epoca, la copertura stampa dei falsi – e le successive inchieste del Congresso – ricevettero più attenzioni della disinformazione vera e propria, creando un’esposizione di secondo livello dall’impatto maggiore della prima.
Dopo l’articolo del Times, l’Ira, sentendosi probabilmente “trollata”, tolse la parola “Agency” dal proprio nome e divenne semplicemente “Internet Research”. E continuò a crescere. A metà del 2015 lo staff della fabbrica dei troll arrivava a otto o novecento persone.
Il Dipartimento America era capeggiato dall’imprenditore ventisettenne di origini azere Dzheykhun Aslanov, soprannominato Jay Z. Di corporatura atletica, i capelli scuri e le labbra carnose, Aslanov amava i cani e le feste, e secondo un ex collega non era un bene che fosse diventato un capo. Era «un ragazzo fantastico, ma a dirla tutta era un manager del tutto incompetente». Il budget del solo Dipartimento America era di circa un milione di dollari l’anno. Perfino lo stipendio base era superiore allo stipendio medio di San Pietroburgo. I troll ricevevano anche bonus a seconda di quanto riuscissero a suscitare reazioni e commenti negli Stati Uniti; le misurazioni del loro operato divennero pertanto sempre più creative.
Nel 2016, l’Ira aveva acquisito infrastrutture informatiche e server negli Stati Uniti. Per nascondere le proprie origini russe, aveva creato appositi Virtual Private Networks, o VPN, e aveva fatto passare il traffico americano tramite questi tunnel criptati. Questa tattica rese più difficile alle social media company americane scoprire le operazioni di disinformazione russe sulle loro piattaforme, anche dopo la diffusione della notizia che era in corso una campagna d’influenza sistematica.
Nell’autunno del 2016, il pubblico online della fabbrica dei troll era arrivato a centinaia di migliaia di follower diretti.
Piattaforme e formati erano nuovi, ma la creazione di contenuti seguiva una ricetta di mezzo secolo prima: fingere di preoccuparsi per gli altri, dimostrarsi creativi, magari tramite qualche slogan brillante, rifarsi a stereotipi familiari e confortanti, far credere di avere tra i propri contatti persone stimate e credibili.
Uno degli obiettivi dell’Ira era spingere gli elettori neri a disertare le elezioni, soprattutto se erano intenzionati a votare a sinistra. L’organizzazione stilò perfino un documento guida a uso interno che potremmo definire razzista: «Le persone lgbt di colore sono meno complesse di quelle bianche, perciò frasi e messaggi complicati non funzionano». «Attenzione ai contenuti razziali» consigliava un altro documento: neri, latinos e nativi americani sono «molto sensibili al #whiteprivilege e reagiscono quando un post o un’immagine sembrano trattare meglio i bianchi».
I giovani manager del Dipartimento America basavano le proprie strategie su quanto sapevano dello spettro politico americano. Ad esempio, Aslanov e i suoi assistenti stabilirono che le infografiche funzionavano meglio coi liberal che coi conservatori, e che i primi erano più attivi di notte, mentre i secondi di mattina presto.
L’Ira creò diverse figure online che si spacciavano per attivisti e organizzazioni di sinistra, talvolta promuovendole con inserzioni a pagamento per fare aumentare i loro follower. Una era una certa Crystal Johnson. Gli impiegati russi scelsero la foto di una giovane donna nera sulla ventina che rideva in modo contagioso e che a metà del 2016 aveva già circa settemila follower. La sua bio recitava: «Abbiamo il dovere di promuovere le cose positive che accadono nelle nostre comunità», e aggiungeva che era di Richmond, Virginia. All’inizio di giugno, Crystal postò una foto della stella di Muhammad Alì sulla Hollywood Walk of Fame, spiegando che la sua era la sola “appesa a un muro, in modo che nessuno ci camminasse sopra”. Il post ebbe più di 22.000 interazioni e nessun impatto sulle elezioni, visto che come altri non serviva a polarizzare o influenzare il pubblico, ma a costruirlo. Da quel punto di vista, si trattò però di un’operazione dal successo modesto.
Alla fine di settembre del 2016 @BlackToLive, uno dei più importanti falsi account di attivisti neri dell’Ira, contava 11.200 follower e scarse interazioni, a pochi giorni di distanza dalle elezioni.24 In un anno, l’account aveva accumulato meno di 190.000 interazioni sui social e solo 16 dei suoi oltre 2600 post nominavano Hillary Clinton, in genere per sostenerla. Nessun dei suoi post prima delle elezioni parlava di come ai neri fosse impedito di votare.
«#AmeriKKKa ci uccide!» twittò nel febbraio 2016 Bleep the Police, un altro falso account afroamericano, usando un hashtag antagonista all’epoca molto in voga.25 Si trattava di uno dei falsi account afroamericani più seguiti dell’Ira, con poco meno di 5000 follower. Il troll a San Pietroburgo che aveva appena inviato il tweet con l’hashtag #AmeriKKKa cambiò account e un minuto dopo lo ritweettò a nome 1-800-woke-af, che viaggiava poco sotto i 7000 follower. Malgrado quel tentativo di dargli una spinta, il tweet arrivò solo a 14 condivisioni e 9 like. A novembre del 2016 nessun falso attivista nero dell’Ira aveva superato i 22.000 follower.
Il dipartimento di Aslanov andava meglio tra i conservatori americani. Ad esempio con @Pamela_Moore, che nel settembre del 2016 arrivava quasi a 15.000 follower. Nella sua foto profilo in bianco e nero sembrava uscita da un film di Jean-Luc Godard: sbirciava da sotto un cappuccio nero che ricordava sia quelli del kkk sia un niqab, con i capezzoli coperti da croci di nastro adesivo nero e una bandiera americana alle spalle. Pamela diceva di scrivere dal “Texas, usa”. Il suo post in evidenza diceva: «Preferisco occuparmi di dieci veterani americani senzatetto che di 50.000 immigrati/clandestini .. e tu?» (punteggiatura ripresa dal post originale). Questo post da solo arrivò a circa 10.000 interazioni.
da “Misure attive Storia segreta della disinformazione”, di Thomas Rid (traduzione di Paolo Bassotti), Luiss University Press, 2022, pagine 496, euro 24