Lettera a LinkiestaÈ molto difficile fidarsi di uno Stato che abroga la nostra privacy per decreto

Nei giorni scorsi il governo ha inserito nel provvedimento sulle “capienze” un comma che dispone a favore della Pubblica Amministrazione il libero trattamento delle informazioni del cittadino nel perseguimento dei suoi fini. Oscar Giannino spiega che quel comma, in una norma che riguarda l’affluenza in cinema e teatri, è quanto meno fuori luogo

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Caro direttore,

ti chiedo ospitalità perché c’è un tema sul quale, come mi capita sempre più spesso, mi interrogo se sia io a non avere più alcun neurone funzionante, oppure se al contrario sia solo l’ennesima conferma della fatica erculea necessaria a digerire non poco di quanto avviene nella nostra singolare Italia.

È presto detto: la deroga alla tutela della privacy del cittadino, disposta a favore della Pubblica Amministrazione con un comma inserito nel decreto legge “capienze”, con cui la settimana scorsa il governo ha alzato appunto l’affluenza consentita nei diversi circuiti di teatri, eventi musicali e discoteche.

Una deroga disposta, in via generale, per ognuno delle migliaia di soggetti che rientrano nel perimetro pubblico centrale e periferico, comprese le Agenzie e le società pubbliche.

Una deroga generale, perché questo significa che tutte le migliaia di soggetti sono autorizzati al libero trattamento dei dati del cittadino nel perseguimento dei loro fini pubblici: e ci mancherebbe. Cioè tranne per l’ipotesi che qualche dirigente o funzionario ne voglia trarre profitto privato, per tutto il resto la deroga al libero utilizzo dei dati è concessa.

E per fortuna che, grazie a un’immediata e riservata protesta avanzata al governo da parte dell’industria privata, almeno in Gazzetta Ufficiale il testo è stato emendato, e ora la deroga non vale per le partecipate pubbliche che operano in regime di mercato. Altrimenti sarebbe stato un paradosso nel paradosso nel paradosso, vedere Eni, Enel, Poste, Terna e Ferrovie esentate dalla tutela della privacy, e tutte le loro concorrenti private no.

Qualche osservazione a ruota libera. Da dove nasce questa misura? Si potrebbe pensare che, in un Paese in cui il Quirinale deve assiduamente richiamare governi e Parlamento a non infilare nei decreti legge norme non pertinenti nonché prive dei requisiti di urgenza – visto che la deroga è in un decreto legge con misure di tutela sanitaria anti-Covid –, la deroga abbia a che fare con il green pass, il cui obbligo nel lavoro pubblico e privato sarà vigente dal 15 ottobre.

Ma non è così: la norma nasce dall’insistenza dell’Agenzia delle Entrate. Sono numerosissime le interviste in cui il bravissimo direttore Ernesto Maria Ruffini lamenta implacabilmente l’ostacolo che la privacy pone alle libere indagini dell’apparato tributario nei confronti dei contribuenti (recentemente si è spinto oltre, ha parlato addirittura di 800 norme ostative alle mani libere dell’Agenzia).

Tant’è che la deroga doveva apparire nella delega fiscale. Ma la delega sa Iddio se e quando verrà poi attuata, e AgEntrate la vuole subito, ergo il testo è stato recuperato nel primo decreto legge possibile.

Ma, c’è un ma: un conto era introdurre una delega circostanziata ad alcuni atti precisi e ostacoli da rimuovere a fini di indagine fiscale, tutt’altro è una delega per l’intera Pubblica Amministrazione incondizionata, cioè non vincolata a fattispecie precise indicate per legge – cioè dalla fonte normativa più alta, non da successivi regolamenti e circolari.

Perché il diritto alla privacy è un diritto costituzionale primario del cittadino, non un divieto di parcheggio fissato o revocato con ordinanza municipale.

E ancora, restando nella lotta al Covid: un anno e mezzo fa l’Italia governata da Conte non è riuscita a darci una efficace app di tracciamento, lasciando inascoltati i lavori e le proposte a tal fine avanzate da un’apposita commissione di esperti.

Si disse – erroneamente – che il problema era l’inviolabilità della privacy del cittadino. E ora, invece, come niente fosse, la tutela della privacy non esiste più. Perché solo lo Stato può violarla? Di più. Se mi si dice «caro mercatista si vede che non hai studiato, la privacy è messa a rischio solo dalle multinazionali americane che tu ami tanto, mentre qui la garanzia è appunto lo Stato custode del bene pubblico», caro il mio somaro, io mi metto a ridere ancor più a crepapelle.

Ma come? Stiamo facendo il cloud nazionale per la migrazione pubblica dei dati di migliaia di server della Pubblica Amministrazione, proprio perché è pubblicamente certificato che il 95% di loro è poroso come una spugna a ogni tipo di effrazione di dati e così resterà ancora per i prossimi anni, e noi pensiamo che invece questi stessi server ora siano la barriera a difesa mentre lo Stato la privacy non la rispetta più? Ma se a ogni concessione di beneficio pubblico che passasse per portali Inps o tributari, ogni volta a chi ne faceva richiesta apparivano sugli schermi dati a casaccio di centinaia di altri cittadini e imprese, e ogni volta ci hanno ripetuto che era colpa degli hacker?

E infine, scusate. Se il grande caos italiano – caos figlio di chi per un anno ha flirtato coi No vax e mica solo i fascisti, ma vasti pezzi di partiti come Cinquestelle e Lega e vaste parti del mondo sindacale a cominciare dalla Cgil: solo un mese fa numerose categorie della Cgil protestavano pubblicamente contro la linea di Landini – a pochi giorni dall’obbligo di green pass può portare ora a decine di manifestazioni violente fuori gli ingressi delle imprese, e ad altre minacce e violenze di pazzi intrisi di ogni possibile variante di complottismi vari, se tutta questa miscela di follia si deve proprio all’accusa contro una pretesa “dittatura” sui dati dell’individuo a chissà quali fini, ebbene di fronte a tutto ciò la risposta è l’abrogata tutela della privacy da parte della Pubblica amministrazione?

Ma è evidente che sbaglio io. Perché se tutti questi interrogativi fossero fondati e reali, a quel commino inserito nel decreto “capienze” avrei visto i grandi giornali insorgere, gli accademici mobilitarsi, gli intellettuali firmare appelli. Invece, niente di tutto questo. Silenzio pressoché generale.

A gridare siamo stati in pochissimi, tra cui il quotidiano la Verità. Ma non venitemi ora a dire che dunque porsi tutti questi interrogativi è di destra, eh. Avevo capito che la tutela della privacy era una difesa essenziale nel mondo multimediatico globalizzato. E che nessuno volesse uno Stato che si metta in condizione di poter illimitatamente utilizzare i dati dei cittadini a fini di controllo sociale, come in Cina o nella Corea del Nord.

Non c’entrano dunque un beneamato nulla destra e sinistra. Ma una cosa mi pare invece sicura: il silenzio generale vuol dire che a tutti sta bene così. E allora parlo per me: in uno Stato che a proprio vantaggio abroga per decreto legge in maniera così generale la tutela della mia privacy, a cui è tenuto, in uno Stato così io non posso certo riporre fiducia.

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