Fuoco amicoIl food design e l’avventura del cibo tra saperi e sapori

Il saggio di Gianni-Emilio Simonetti che analizza la cultura alimentare e le sue evoluzioni. Una narrazione che svela come oggi stiamo vivendo in un’era estetica degli alimenti, preoccupandoci delle loro forme e dei loro colori ma dimenticando l’importanza della sostanze nutritive

James Bond è un buongustaio che ordina Martini mescolati, non shakerati. L’ispettore Callaghan pranza sempre con un hot dog. I due protagonisti di Pulp Fiction, sicari a sangue freddo, ci vengono mostrati mentre discutono di hamburger. Ma siamo davvero ciò che mangiamo? Quanto il cibo, e le sue declinazioni e prescrizioni, influiscono sulla nostra vita? Di questo e altro si discute in “Fuoco amico. Il food design e l’avventura del cibo tra saperi e sapori”, prezioso saggio di Gianni-Emilio Simonetti, edito da Derive Approdi, incentrato sulla cultura alimentare e sulle sue evoluzioni, arricchito da un compendio di ricette, che va dal Neolitico ai giorni nostri.

Si parte da un presupposto di base: gli atti alimentari sono strutturati come un linguaggio. Cosa significa? Che, come un linguaggio, la cucina possiede un lessico, rappresentato dai prodotti e dagli ingredienti, una grammatica ovvero le ricette e una forma retorica che possiamo ritrovare nelle tradizioni e negli stili del mangiare insieme.

Come gli uomini parlano lingue differenti, così mangiano secondo cucine differenti, applicando una grammatica e una sintassi che, se ci si riflette, vengono incorporate fin dall’infanzia. Gli uomini potrebbero nutrirsi di un numero ben maggiore di alimenti rispetto a quelli che, in effetti, consumano. E perché lo fanno? Perché scegliere una carota piuttosto che una qualsivoglia altra radice commestibile? Forse perché quello che è mangiabile non è sempre culturalmente commestibile, e le trasgressioni a questo principio scatenano immediatamente il disgusto, che attiene alla sfera della socialità, al contrario del gusto che, leggiamo, possiede una sua dimensione soggettiva.

Tutti gli esseri viventi si nutrono, solo l’uomo cucina. Ciò che mangiamo, come lo mangiamo, il filtro attraverso cui la cultura fa passare un determinato alimento, è un forte collante per il mantenimento della specificità. L’alimentazione è un linguaggio che stabilisce l’identità e individua la diversità, tanto che anche nei casi estremi di allontanamento dalle proprie origini e tradizioni, la cucina è una delle pratiche sociali che più identifica la nostra provenienza. In tal senso è curioso notare come chi è costretto, o decide, di andar via dal proprio Paese, resti spesso più fedele alle proprie tradizioni culinarie di quanto non lo resti alla religione o al costume.

Questa forte identificazione del soggetto con l’alimentazione sembra però entrare profondamente in crisi nel momento in cui un nuovo modello contemporaneo, quello dettato dalla globalizzazione, entra in gioco. Se il cibo diventa una merce come un’altra cosa lo rende così peculiare da esprimere l’identità di una persona o, ancor più, di un popolo?
A tal proposito, l’esempio più paradossale, descritto da Simonetti, è quello relativo ai Luo, un popolo che vive tra il Sudan e l’Uganda che, per i suoi riti di iniziazione, non usa più tisane a base di erbe della Savana, bensì la Coca Cola.

Ma se in ogni parte del mondo possiamo ritrovare gli stessi prodotti, con gli stessi sapori e le stesse consistenze, il tratto simbolico degli atti alimentari appare profondamente indebolito, senza storia e senza identità. Tutto tende a essere zuccherato e molliccio. Anche quello che pensiamo ci piaccia o meno passa attraverso le reti del globalizzato, producendo un gusto di sintesi che, per le nostre papille ormai assuefatte, risulta più vero di quello reale. Se pensiamo al sapore, al colore e alla consistenza della frutta, questo passaggio risulta palese. Il ghiacciolo alla fragola, ad esempio, è lontano anni luce dal sapore, dal colore e dalla consistenza del frutto appena colto, eppure è per tutti immediatamente identificabile. In tal senso è interessante leggere che, attualmente, esistono almeno sei elementi globalizzati: i noodles e gli spaghetti, gli hamburger, il sushi, il chili, la pizza, il cous cous. A breve si aggiungerà, secondo le previsioni, anche la paella.

Una fine analisi, quella di Fuoco amico, che ci ricorda come le nostre abitudini alimentari sono in grado di descrivere chiaramente la nostra esistenza: edulcorata, frenetica e poco attenta alla Storia. Un fenomeno irreversibile? Forse. L’esito dipende da quanto saremo in grado di riportare il cibo alla sua forma di nutrimento e di cerimonia, discostandolo da quelle forme di spettacolo, che lo sottraggono al gusto, in favore della sola vista.

Tra le molte ricette incluse nel saggio, alcune difficilmente replicabili a causa dell’evoluzione del gusto e dalla reperibilità degli ingredienti, noi abbiamo provato la Broda di Vincent, una zuppetta a base di zucca che pare fosse cara al celebre pittore. Simonetti ci racconta che Van Gogh la preparava svuotando la zucca e farcendola con tutti gli ingredienti, per poi lasciarla cuocere poggiata a una stufetta, che compare in alcune delle sue tele, per ore e ore.

LA BRODA DI VINCENT

Ingredienti (per 4 persone)
2 kg di zucca pulita
200 g di patate americane grattugiate
100 g di lardo magro battuto o 50 g di burro
100 g di groviera tagliato a dadini
Due cucchiai di panna fresca da cucina
2-3 amaretti
Prezzemolo
Sale, pepe e noce moscata
Olio evo

Procedimento
Per prima cosa pulite a tagliate a fette sottili la zucca e cuocetela al vapore assieme alle patate. Fate sciogliere il lardo o il burro in una pentola dai bordi alti. Unite la zucca e le patate e cuocete fin quando non risulta una crema (se necessario aggiungete qualche mestolo di acqua calda). Aggiustate di sale, pepe e noce moscata. A fuoco spento aggiungete il formaggio e la panna. Completate con il prezzemolo, un filo d’olio evo e gli amaretti grattugiati.