A Wieliczka, vicino a Cracovia, in Polonia, c’è una sterminata miniera di sale, sfruttata fin dal XIII secolo, e patrimonio dell’Unesco dal 1978. Le sue gallerie si estendono per quasi trecento chilometri, fino a una profondità di 327 metri, e portano alle oltre 2.350 stanze scavate dai minatori ininterrottamente per otto secoli. In alcune di queste, che si affacciano direttamente sul lago interno Wessel con bellissimi balconi in legno, lo spettacolo, da qualche mese, è piuttosto inusuale.
Piccoli gruppi di persone di tutte le età, sotto la guida di insegnanti specializzati, fisioterapisti e medici, alternano sessioni di ginnastica dolce ad altre di esercizi per la respirazione, controllando poi la funzionalità dei loro polmoni con uno strumento tanto semplice quanto poco ortodosso: la formazione di bolle di sapone, che una volta create (se il paziente ce la fa), si librano in aria e si riflettono nell’acqua, per poi fondersi con essa.
Responsabile del programma è Magdalena Kostrzon, un’esperta di haloterapia, cioè di riabilitazione respiratoria basata sui benefici dell’aria satura di sale – particolarmente pura, farcita di minerali e grondante di umidità –, che da molti anni propone cicli di cure ai malati gravemente asmatici. L’aria che arriva alle logge sul lago, infatti, percorre decine di chilometri in un’atmosfera ricca di cloruro di sodio e acqua, e per questo giunge in grandi bolle, depurata da microrganismi, inquinanti e allergeni, e particolarmente adatta a calmare le infiammazioni polmonari. O, almeno, questo è quanto sostengono i responsabili del centro.
Negli ultimi mesi, però, gli asmatici sono stati quasi totalmente sostituiti da un’altra tipologia di pazienti: gli ex malati di Covid che hanno avuto conseguenze sulla funzionalità respiratoria, per esempio per la polmonite, o perché sono stati intubati. E i Long hauler.
I risultati – stando alle testimonianze raccolte dalla “Reuters” – sono più che positivi. L’unicità di quei luoghi, il silenzio, l’aria purissima sarebbero infatti di per sé terapeutici, così come lo sarebbero i minerali presenti, che sembrano esercitare una funzione riparatrice sugli epiteli dell’apparato respiratorio danneggiati dal virus. Se a questo si unisce il fatto di ritrovarsi insieme ad altri pazienti e di fronte a medici attenti e disponibili, il successo è (sarebbe) assicurato. Kostrzon e alcuni specialisti degli ospedali della zona, del resto, propongono una terapia che, pur non essendo riconosciuta da nessuna autorità sanitaria, è praticata con finalità analoghe da molto tempo, soprattutto in Europa orientale e centrale.
In effetti, per decenni i benefici dell’aria pura sui polmoni sofferenti sono stati l’unica cura disponibile contro malattie quali la tubercolosi, prima degli antibiotici e dei vaccini, e hanno costituito la base su cui realizzare, a tutte le latitudini, in alta quota come sul mare, sanatori estesi a volte come città, che oggi sono riconsiderati anche per il Long Covid. L’idea di curare con l’aria rarefatta e satura di sali non è quindi una novità, anzi.
In più, nel caso del Covid, altri indizi suggeriscono che ci siano basi fisiologiche per una qualche efficacia. Per esempio, si è visto che chi risiede in aree costiere tende ad ammalarsi di meno, probabilmente proprio a causa di una serie di azioni positive esercitate dai sali presenti nell’atmosfera e dall’umidità.
Tuttavia, si tratta di percorsi terapeutici che non sono mai stati convalidati da studi condotti con rigore scientifico. E questo genera discussioni di difficile composizione, se affrontate con un approccio rigorosamente ed esclusivamente basato su effetti misurabili. Infatti, se alcuni pensano che esistano ormai prove sufficienti dell’efficacia del combinato di sali più umidità, così come dell’aria arricchita in ossigeno, molti altri ritengono che si tratti solo di un effetto placebo particolarmente accentuato, assicurato dalle atmosfere del tutto peculiari di luoghi come un’antica miniera, e amplificato dalla grande attenzione con la quale i terapisti si prendono cura dei malati.
Ma la situazione, in realtà, è più complessa di così.
Per quanto riguarda l’aspetto psicologico, il beneficio era stato ipotizzato già dal pioniere di questa terapia, Feliks Boczkowski, medico polacco che nel 1826 inaugurò le cure al sale proponendole per una miriade di disturbi. Tra i quali, ça va sans dire, spiccavano quelli femminili come l’infertilità, la stanchezza e l’inevitabile isteria. Boczkowski non ebbe fortuna, perché la sua terapia non sopravvisse alla sua morte, ma indubbiamente chi sta vivendo la condizione del Long hauler, magari da mesi, isolato in casa, senza terapie, non può che beneficiare di giornate come quelle del protocollo di Kostrzon, che prevedono sessioni di non meno di sei ore, per quindici giorni consecutivi (al costo di 500 euro), in un luogo magico, in compagnia di persone nella stessa condizione, accudite da specialisti che non sottovalutano il loro disagio e, anzi, se ne fanno carico.
Diversi esperti, come David Putrino, che stanno cercando di mettere a punto protocolli specifici, così come molti rappresentanti dei malati, sottolineano proprio questo aspetto: a differenza di quanto accaduto per altre patologie difficili, che si è tentato inutilmente di affrontare con approcci esclusivamente farmacologici o comunque riabilitativi in senso stretto, questa volta è fondamentale che le cure siano olistiche, e siano progettate (e poi verificate) in modo multidisciplinare fin dall’inizio, tenendo conto della persona nel suo insieme, e non solo delle cause biologiche della malattia. Dunque, liquidare l’effetto di una giornata in miniera (così come di altre possibili terapie non ancora ufficializzate) con l’argomento che non ci sono ancora prove scientifiche dell’efficacia potrebbe essere, in questo caso, una visione riduttiva, poco moderna e in fin dei conti sterile di tutta la questione.
Al tempo stesso, tuttavia, non si può ignorare il rischio che un’enfasi eccessiva su un benessere poco dimostrabile possa portare acqua al mulino di chi pensa che il Long Covid sia solo l’espressione di un disturbo psicologico. E non si possono di certo sottovalutare i rischi di pratiche di non dimostrata efficacia e sicurezza.
La situazione, dunque, è assai delicata, e illustra le difficoltà che stanno incontrando coloro che cercano di capire come aiutare chi soffre di Long Covid: è complicato avere un’idea chiara del concetto stesso di cura, per una malattia così tentacolare.
Lo si vede anche con un altro tipo di riabilitazione finalizzata allo stesso obiettivo – il recupero della funzionalità respiratoria – molto diversa, altrettanto efficace, e altrettanto poco ortodossa.
Questa volta l’idea è nata a più di un migliaio di chilometri dalla Polonia, a Londra, dove a fine gennaio 2021 é partito il programma eno Breathe, dedicato a chi è stato in terapia intensiva ma, soprattutto, ai Long hauler, messo a punto dai medici, dai foniatri e da diverse figure di terapisti dell’Imperial College Healthcare nhs Trust in collaborazione con i cantanti e i vocal coach della English National Opera (Eno).
L’idea di base è semplice: applicare a chi soffre di fiato corto, dolori al petto e difficoltà di respirazione e di fonazione le stesse tecniche utilizzate per tenere in esercizio i cantanti d’opera.
Con, in più, la possibilità di svolgere le sedute anche a casa, per chi non riesce a uscire o preferisce continuare a esercitarsi al di là del tempo della lezione. Inizialmente previste su Zoom (esistono video su YouTube), in sessioni di un’ora alla settimana per almeno sei settimane, e totalmente gratuite, le lezioni insegnano a utilizzare al meglio il diaframma, a vocalizzare con estensioni e per tempi crescenti e, di conseguenza, ad ampliare e regolarizzare la respirazione. È noto infatti che chi soffre di Long Covid, per motivi non del tutto chiari, e anche a causa dell’ansia e della depressione quasi sempre presenti, tende a utilizzare solo la parte superiore dei polmoni, peggiorando le conseguenze di uno scarso apporto di ossigeno, e a iperventilare: proprio ciò che le tecniche del canto insegnano a non fare, recuperando appieno l’utilizzo del diaframma, respirando profondamente e, soprattutto, accrescendo la consapevolezza del respiro in ogni momento.
Il successo di Eno Breathe è stato immediato e clamoroso: dopo un’iniziale fase pilota, il programma è stato adottato in trenta cliniche per il Long Covid sparse in tutto il territorio britannico, e i primi numeri sono più che incoraggianti. Un sondaggio compiuto tra i primi mille pazienti ha rivelato infatti che il 90 per cento ritiene di aver avuto un miglioramento nella durata e profondità del respiro e il 91 per cento nei livelli di ansia e depressione, e che il 100 per cento avrebbe voluto continuare ben oltre le sei settimane. Non a caso, pochi mesi dopo l’Università della California a Los Angeles ha lanciato un programma fotocopia con la compagnia operistica della città, che sta avendo un successo analogo. Da notare che i pazienti, in entrambi i casi, sottolineano, come nel caso di Kostrzon, la grande importanza di aver trovato una comunità in cui sentirsi finalmente meno isolati e di poter interagire con personale specializzato che comprenda la loro condizione e non la sottovaluti.
Sia la terapia delle miniere di Wieliczka, sia quella dei cantanti d’opera, quindi, pur non essendo convalidate, sembrano funzionare. Anche perché vanno al di là della semplice somministrazione di un certo tipo di cura, e comprendono aspetti relazionali considerati non meno importanti.
da “Il lungo Covid. La prima indagine sulle conseguenze a lungo termine del virus”, di Agnese Codignola, Utet, 2022, pagine 231, euro 18