Tra le cose di cui ci ha privato la pandemia, Cavallo Pazzo. Amadeus sarebbe stato perfetto come giovane Pippo Baudo che se ne sbarazza mentre quello urla «Questo festival è truccato e lo vince Stefano Coletta». E invece niente imprevisti, niente irruzioni, niente estranei senza distanziamento.
Tra le cose che non avremmo avuto senza la pandemia, quegli splendidi due minuti di Fiorello che augura a chi condurrà la prossima edizione di avere il pubblico in teatro, pubblico in platea, pubblico da teatri shakespeariani che mangia sbriciolando seduto in mezzo all’orchestra, pubblico assembrato fuori dall’Ariston, «ma vi deve andare malissimo». In versione Alex Drastico, lancia la sua maledizione su quelli che faranno il festival normale: almeno paghino lo scotto d’uno share persino più basso del loro, almeno debbano chiedersi ogni giorno chi gliel’ha fatto fare (non dice «come ce lo siamo chiesti noi», ma viene comunque voglia di abbracciarlo, come accade quando su un palcoscenico avviene quell’eccezionalità che è un professionista della messa in scena che decida di dire la verità).
Immediato lo scandalo, le grida all’ingratitudine, gli autori dei prossimi festival che si messaggiano indignazione e dicono che certi direttori precedenti l’avrebbero cacciato in diretta, gli avrebbero fatto requisire il cachet dall’ufficio legale della Rai. Rai che nel frattempo, tra i video nell’apposita sezione di RaiPlay, pensava bene di caricare tutto tranne l’invettiva fiorellica, sperando nello scoglio che argina il mare. Figuriamoci. Stamattina, mentre voi leggete questo articolo, si starà ancora polemizzando e chiedendo il 41 bis per il reato di pensiero magico (grazie Fiorello, che avrai animato anche la conferenza stampa domenicale, che ci hai dato lo scandale du jour, che hai oscurato la gara e chiunque vinca e non ci hai costretti a occuparci di quella parte noiosissima di Sanremo che sono le canzoni).
Tra le cose in cui questo festival è stato uguale agli altri: non ho ascoltato neanche una canzone in gara. No, non è vero, a un certo punto ho sentito Arisa che squarciagolava «se da sopra il divano più niente ti schioda», pensavo fosse pandemia e invece era amore finito. Ma insomma per il resto non aspettatevi da me considerazioni sul vincitore, ci tengo a scrivere l’unico articolo sulla fine di Sanremo che non lo nomini: neanche resto sveglia per sapere chi sia, voglio andare a letto presto e svegliarmi per la conferenza stampa, il vero show sanremese.
Tra le certezze che questo festival ci ha confermato: la meraviglia di Ornella Vanoni che arriva in Dior e sandali piatti, canta quattro brani che hanno fatto la storia della musica (e ci dispiace per il marito della Ferragni, che aveva fatto la sua inutile canzoncina, poi è arrivata Domani è un altro giorno e li ha mandati a casa tutti), e dice quel che pensavamo tutti. Ovvero: Fiorello, ma tra una canzone in gara e l’altra, tra un ospite cantante e l’altro, è proprio necessario che tu canti? (Oltretutto ogni tre minuti in cui canta sono tre minuti in cui non movimenta la serata con un’invettiva).
Tra le cose che hanno dato la misura del disastro: lo scorso festival aveva come ospite fisso Tiziano Ferro, l’ultima popstar italiana, uno che ha la voce e il repertorio e i ritornelli che sapremmo riprodurre al karaoke e almeno una decina di canzoni che tutti conosciamo; questo festival aveva come ospite fisso Achille Lauro, uno che ha uno stylist. (È stato bellissimo sentire Amadeus ripetere che quelle di Lauro non erano esibizioni, erano «dei quadri», come da comunicato stampa, e nessun giornalista dire «scusate, ma in pratica che significa?»: la conferenza stampa di Sanremo è proprio lo specchio della società civile. Società civile che sui social parla d’un cantante testimonial di Gucci come fosse uno che stiamo salvando da un campo profughi).
Tra le cose che questo festival ci ha fatto scoprire: l’esistenza di addetti ai lavori – i cantanti che ringraziavano profusamente Amadeus, ma pure il direttore di Rai 1 – convinti che la musica in tv (cioè: quel che è Sanremo) fosse ferma da un anno. «Ha rimesso in moto un mercato che era morto», ha detto Coletta nella sua penultima performance da conferenza stampa, apparentemente ignaro che in questo anno fossero andati in onda sulla sua rete vari programmi – da uno di Fiorella Mannoia, a uno di capodanno condotto proprio da Amadeus con Gianni Morandi – pienissimi di musica dal vivo. Quelli fermi sono i concerti, qualcuno spieghi a queste brave persone la differenza.
Tra le cose che questo festival ci ha confermato: che le classi sociali esistono. Se sei rappresentante d’aspirapolveri e in questi mesi di ristoranti chiusi hai mangiato un toast in albergo, c’è la pandemia e pazienza; se sei giornalista inviato a Sanremo e chiudono i ristoranti, quando fa l’elenco dei guai del paese in conferenza stampa Amadeus t’includerà: «Ieri mi hanno chiesto, noi stasera dove mangiamo?». Il dramma dickensiano di dover ripiegare sul room service.
Tra le cose in cui questo festival si è dimostrato sceneggiatore, le Sardine (parlandone da vive) che vanno a occupare il Pd autocertificandosi salvatrici della democrazia, mentre a Sanremo il direttore di Rai 1 Stefano Coletta autocertifica che il suo festival è stato «un’azione di grande coraggio, di grande nobiltà, di grande sintonia con il paese», prosegue autocertificando «risultato epico», e conclude renatozeriamente «Viva la Rai».
La certezza principale che mi ha lasciato questo festival è che lo sbocco naturale di Coletta – uno che dice «grande resilienza» e «pregnanza semantica» e «un’operazione culturale con una grande valenza etica», e sta parlando d’un programma di canzonette con Orietta Berti e Francesco Renga – che il suo approdo, dunque, non possa che essere quello di gran capo delle sardine. Quello che c’è ora, il ricciolino che nei giorni scorsi s’è visto in un programma di cibo italiano sulla Cnn, definito dall’attore Stanley Tucci «uno schianto, un Che Guevara italiano, troppo modesto», lui lo mandiamo a dirigere Rai 1, e il prossimo festival. Il Sanremo postpandemico che, da anatema di Rosario Fiorello, andrà malissimo.