La tradizione comunista è sempre stata antireferendaria, per un’avversione strutturale all’idea che la modifica legislativa, sia pur solo per via di abrogazione, sia sottratta all’esclusiva monopolistica del sistema partitico-rappresentativo.
Ho scritto, volutamente, “partitico-rappresentativo” anziché “politico-rappresentativo”, perché l’esperimento referendario restituisce ai cittadini una facoltà di intervento che revoca l’inevitàbilità dell’interposizione partitica, e quell’effetto restitutorio obbliga i partiti a fare politica piuttosto che a essere politica, cioè a rimanere partiti la cui politica è essere partiti.
Il che, se riguardava, sia pur in misura diversa, il complesso dei partiti politici, massimamente valeva per quello che più di tutti gli altri era impostato a confondere la propria politica con la propria sussistenza, cioè appunto il partito dei comunisti italiani: il quale, infatti, solo con malessere e per valutazione realistica, mai per convinzione, si è lasciato andare episodicamente, e sempre tardivamente, a condividere qualche iniziativa referendaria.
Ottenuta legittimazione al governo, quella tradizione ha tuttavia visto aggravarsi e virulentarsi la propria avversione al referendum. E anche questo si spiega. Perché, accedendo al governo formale, il potere che fu comunista ha preso a confondersi con lo Stato e a identificarvisi, quasi cessando di essere propriamente un partito e diventando un’articolazione del potere pubblico, garante di questo e da questo garantita.
In un tal quadro trasfigurato, il referendum non è dunque percepito come possibilità dell’ordinamento di emendarsi, con la cancellazione di una norma all’esito di un dibattito nel contraddittorio tra i favorevoli e i contrari: ma come un attentato ineluttabilmente rivolto, quasi a prescindere dal contenuto del quesito abrogativo, a destituire un pezzo della realtà pubblica in cui in quel modo ci si confonde e identifica.
La riserva parlamentarista del Partito democratico, l’indicazione della soluzione parlamentare quale mezzo prioritario e più consono, più corretto, più serio per provvedere riforme, altro non sono che presentabili giustificazioni di quell’avversione profonda: perché, ovunque intervenga, il referendum interviene comunque, alterandolo, sul rapporto tra Stato e cittadini, presidiato dal partito che parteggia inevitabilmente per quello, e cioè per sé stesso.
Se poi il referendum riguarda i comparti amministrativi e le funzioni istituzionali, allora è anche peggio perché incide sul corpo di cui si è membra: sulla carne pubblica, che occorre preservare anche quando è malacarne.