Ho un amico secondo il quale ero l’unica ottenne, la prima volta in cui vidi Manhattan, a tifare per la sì e no quarantenne stronza e non per la diciassettenne ingenua. Secondo il mio amico sono stata anche l’unica ventenne e trentenne e quarantenne: secondo il mio amico tutte le persone sensate tifano Tracy-la-scognomata, io sola tifo Mary Wilkie. Ma io dico: come si fa a tifare per la ragazzina innocente, cosa ci dobbiamo dire io e l’aborigena innocente?
C’è un momento, in Fedeltà, in cui lei – la sì e no quarantenne neppure particolarmente stronza, ma insomma adulta – se ne va di casa, e va dalla madre. Va dalla madre e poi si scoccia quando la madre s’impiccia; ma d’altra parte, se Brooke non si fosse presentata a casa di Stephanie senza sensatezza alcuna, Beautiful sarebbe già finito da decenni. Comunque, la madre s’impiccia di cosa sia successo tra lei e il marito, e lei sbuffa: ma tu e papà non litigavate mai?
E a quel punto, se come me siete delle vecchie pazze che parlano col televisore, a quel punto vi ascolterete dire a voce altissima: certo, ma tuo padre se l’era almeno scopata, la biondina per cui litigava con tua madre, mica stava settimane di storia e quattro ore di sceneggiato a languire.
Fedeltà parla di voi. Di voi che siete il pirla che si strugge per una che manco si è scopato, il pirla dell’epoca di Tinder, il pirla che non vuole infilarsi nelle mutande della biondina, vuole sacrificarsi a non farlo, e sentirsi per questo compiaciuta vittima della propria onestà (il pirla di Fedeltà è il genere di pirla che utilizza categorie come «onestà intellettuale»). Il pirla convinto, mentre fissa la biondina che bacia un ventenne, di star struggendosi perché desidera il contenuto delle mutande di lei, mica la tenuta del fiato di lui.
Fedeltà parla di voi. Di voi che siete la cretina che fantastica mentre si fa palpeggiare da un fisioterapista con mani talmente brutte che solo per quelle sarebbe da andar subito da un altro. Di voi che avete tutto quel gusto per la graniglia e nessun gusto per gli uomini. Tutto quel gusto per le cucine a isola e nessun gusto per le fantasie erotiche.
Lasciate che vi parli della graniglia. Lasciate che vi parli di come Fedeltà – la serie di Netflix tratta dal romanzo di Marco Missiroli con quella perfettissima copertina instagrammabile, quella foto in bianchennero in cui l’ombra cela eventuali doppi menti e restano solo gli occhi a promettere quanto sei figa e probabilmente a non mantenerlo quando ti vedono alla luce – mi abbia illusa d’aver cura delle mie perversioni.
La prima scena di Fedeltà è fatta così. Lei – agente immobiliare – arriva con dei clienti in un appartamento milanese senza ascensore. Sono novantanove gradini, spiega, ma ne vale la pena. Quando entrano in casa, quando m’innamorano dei pavimenti di graniglia, io spero in sei puntate di real estate porn. Ma no, perché m’innamorano e m’abbandonano: poco dopo arriva uno che chiunque non sia al suo primo audiovisivo capisce essere il marito, il marito che si finge un cliente davanti agli altri clienti, il marito che è un fesso intellettuale borghese con la sua minuscola fantasia di Ultimo tango.
E quindi niente, lei si leva le mutande, e io non posso godermi la graniglia. (Sei puntate dopo mi daranno il Bar Basso, perché pensano che noialtri appassionati di estetica borghese ci accontentiamo del minimo).
Le mutande levate di lei non impediscono l’inciampo nella biondina: perché altrimenti Fedeltà durerebbe una puntata e non sei (ormai sembra che in un’ora e mezza nessuno riesca più a dire niente: che fine ha fatto Louis Malle, che la casa di Jeremy Irons nel Danno aveva pure degli infissi stupendi); ma anche perché oggigiorno il compito principale dei teleromanzi è far sentire intelligentissimo lo spettatore. Lo spettatore che, quando la cretina scopre le cartoline d’amore tra il padre e una che non è la madre, capisce un’infinità di tempo prima di lei che la madre questo grande segreto lo conosce già. La cretina no, la cretina trasecola, sennò che cretina sarebbe, e noi come faremmo a sentirci sveglissimi.
La biondina studia scrittura (mai nessuno che studi come sostituire i tubi), e il pirla le insegna. Dicendo cose come «una di quelle giornate che ha lasciato il segno», acciocché in futuro siamo coperti sul fronte «scrittori che non sanno usare le concordanze». Le insegna in una classe in cui c’è la nera, la cinese, l’indiano, perché evidentemente Netflix è convinta che i corsi di Milano siano tali e quali a quelli di Portland. Una classe che gli editori invitano a una festa con open bar per vagliare i nuovi talenti, perché evidentemente Netflix è convinta che, così come la sua, neanche la bolla economica dell’editoria sia ancora scoppiata.
C’è un momento che condurrà al vero sentirsi tradita della cretina, al suo sentirsi assai più tradita che se avesse un marito novecentesco, uno di quelli che la biondina se la sarebbero scopata alla prima puntata. Il momento è quello in cui la biondina dice all’insegnante che, se vuole leggere il suo compito, deve darle da leggere il romanzo cui sta lavorando lui. E tu pensi non accadrà mai, lo scrittore avrà pure imparato qualcosa dal Bentivoglio di Ricordati di me, saprà pure che ridicolo più di ogni cosa è il romanziere che declama sé stesso alla tizia con cui vuol cornificare la moglie.
E invece. E invece non molto tempo dopo lo vediamo stampare il file cui sta lavorando, e apporci pure una dedica per la biondina, apporla sul primo foglio, quello su cui c’è il titolo, un foglio che voi e io saremmo stati abbastanza svegli da non stampare per risparmiare sulla cartuccia.
E invece. E invece lui lo stampa. E quindi quando la moglie, che non è che s’ammazzi esattamente di lavoro, va a casa della biondina e vede il romanzo che il marito non ha lasciato leggere a lei ma s’è invece affrettato a dare a una alle cui mutande non ha neppure avuto accesso, a una che ha vent’anni e immaginiamoci i raffinati consigli letterari che sarà in grado di dargli, quando la moglie vedrà il manoscritto sarà peggio che arrivare a casa e trovare Nino Sarratore che s’ingroppa la colf.
All’ultima puntata improvvisamente si smette con le premesse, si lascia che i personaggi cambino, e la storia prende una qualche vita. Che è la stessa cosa che accade in Inventing Anna (lì otto ore di premesse, qui cinque). Dev’essere una precisa scelta industriale: brodo per tre quarti, e la ciccia in fondo. Se resisti, Netflix ti premia.
Dev’essere che «la vita è quello che resta dopo ogni bivio», come dice un romanzo alla cui presentazione vanno il pirla e la biondina, un romanzo probabilmente scritto dal Bentivoglio di Ricordati di me. Dev’essere un modello studiato dai migliori neurologi, perché io mi sono messa a vedere Fedeltà alle dieci di sera e alle due ero ancora lì che dicevo «solo un’altra puntata, solo per vedere se torna la graniglia». Avete vinto voi, imbecilli.