Sempre più risorse vengono destinate a piani di sostenibilità ambientale, a misure di contrasto al cambiamento climatico e ad azioni che impediscano il deterioramento del nostro pianeta. Nel frattempo, qualcuno alza gli occhi al cielo.
Lì, infatti, si sta accumulando un numero esorbitante di detriti che ora occupa, per non dire assedia, gli strati orbitali più bassi del nostro pianeta. Space junk, spazzatura spaziale o residui orbitali: così vengono definiti i satelliti non più funzionanti, i corpi di vecchi razzi e altri oggetti frammentati che non hanno più uno scopo utile ma che gravitano attorno al nostro pianeta, come una massa indefinita di materiale inutile.
Secondo le stime effettuate dalla Nasa a maggio dell’anno scorso, questi oggetti-spazzatura superano i 27mila elementi, mentre l’Agenzia spaziale europea (Esa) ne ha contati a novembre più di 36 mila. Si parla di oggetti le cui dimensioni sono paragonabili circa a quelle di una pallina da tennis. Se però si dovessero contare proprio tutti i detriti presenti nelle nostre orbite, includendo anche quelli grandi fino a un millimetro, si valicherebbero i 330 milioni.
Il problema dello space junk non sorge per una questione estetica o di ordine. Il rischio generato da questa spazzatura cosmica compromette direttamente la salubrità degli altri oggetti in orbita oltre a quella dei sempre più frequenti viaggi spaziali. «Poiché i detriti viaggiano ad alta velocità, una collisione con un frammento di appena 1 centimetro di diametro può generare la stessa quantità di energia distruttiva di una piccola automobile che si schianta a 40 km all’ora» scrive l’Esa, aggiungendo che dei 36mila oggetti di media grandezza censiti qualche mese fa, soltanto il 13 per cento di essi è attivamente controllabile.
È bene tener presente che l’atmosfera terrestre può attirare a sé gli oggetti più vicini facendoli bruciare, ma i più lontani (oltre i 600 chilometri di altitudine) possono rimanere nello spazio fino a 25 anni. «Immaginate quanto sarebbe pericoloso navigare in alto mare se tutte le navi perse nella storia fossero ancora alla deriva in superficie» aveva affermato il direttore generale dell’Esa, Jan Wörner. Come diretta conseguenza di questa alta percentuale di rischio, le missioni di osservazione della Terra o quelle svolte all’interno della Stazione spaziale internazionale sono costrette a compiere “manovre di prevenzione delle collisioni”. In media due volte all’anno.
Ma come c’è finita tutta quella roba nello spazio?
Se nel 1990 c’erano meno di 500 satelliti attivi in orbita attorno al nostro pianeta, oggi ne troviamo più di 4 mila. A modificare radicalmente la cifra di oggetti cosmici ci ha pensato la New Space, l’avvento delle compagnie private nello Spazio per fini capitalistici. Se fino a qualche tempo fa, infatti, il cosmo rappresentava un luogo ad uso esclusivo dei governi, ora non è più così. Aziende come SpaceX, China SatNet, Amazon, OneWeb, Lynk Global hanno dato vita a vere e proprie costellazioni satellitari che puntano a raggiungere fino a 41mila satelliti ciascuna – caso, quest’ultimo, della nota Starlink di Elon Musk, il cui traguardo è programmato per il 2027, oggi a quota 1469. Insomma, la quasi totalità dei satelliti che oggi galleggiano intorno al nostro pianeta sono lì per scopi commerciali, mentre soltanto una porzione molto più piccola è al servizio di esigenze governative, militari, civili e accademiche.
Secondo le stime della statunitense Secure World Foundation, a maggio 2021 oltre 4mila satelliti erano attivi nello spazio più vicino a noi. La maggior parte di essi, circa 3 mila e trecento, occupano la cosiddetta “Leo” (Low Earth Orbit) lo strato orbitale più basso della Terra che va da 200 a 2 mila chilometri d’altezza. 139 si trovano tra i duemila e i 32 mila chilometri, sulla cosiddetta “Meo” (Medium Earth Orbit), dove vengono posizionati i satelliti Gps. Sulla “Geo” (Geostationary Orbit), sempre secondo la conta di Secure World Foundation effettuata lo scorso maggio, si trovano oltre 500 satelliti geostazionari – con un periodo orbitale di quasi 24 ore – le cui funzioni sono principalmente meteorologiche e di telecomunicazioni.
«Anche se tutti i lanci spaziali fossero interrotti domani, le proiezioni mostrano che la popolazione complessiva di detriti orbitali continuerà a crescere, poiché le collisioni tra gli oggetti generano detriti freschi in un effetto a cascata», aveva detto Luisa Innocenti, a capo dell’iniziativa Clean Space dell’Esa. Una prospettiva meglio nota come “sindrome di Kessler”, dal nome dello studioso, Donald J. Kessler, che la teorizzò nel 1978, immaginando uno strato detritico talmente fitto da impedire una navigazione sicura.
Secondo la Secure World Foundation, dal 1959 a oggi Cina, India, Russia e Stati Uniti avrebbero effettuato collettivamente più di 70 test antisatellite (Asat), nel tentativo di distruggere definitivamente periferiche non più attive. Quello che ne è risultato, sono stati gli oltre 5mila nuovi pezzi di detriti orbitanti attualmente monitorati, oltre alle migliaia di altri oggetti che sono troppo piccoli per essere tracciati.
Lo scorso novembre, «la Russia avrebbe condotto un test su sistemi d’arma antisatellite» – scrive Francesco Ferrante su Limes – «Questa informazione si basa sull’apparente distruzione di un satellite noto come Kosmos-1408, parte di una serie di sistemi di intelligence elettronica risalenti all’era sovietica, che ora avrebbe generato un ammasso di detriti in grado di minacciare la Stazione spaziale internazionale (Iss)».
Ad aprile dell’anno scorso, l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (Sipri) ha pubblicato un documento di 16 pagine dal titolo “Proposta di vietare i test antisatelliti distruttivi: un ruolo per l’Unione europea” con cui chiedeva ai 27 di assumere, in questo senso, l’incarico di facilitatori.
«Non ha molto senso pensare a una bonifica attiva di detriti fintanto che un gran numero di nuovi satelliti non nasce con la possibilità di deorbitare. È forse mancanza di volontà politica?», asseriva lo scienziato David Wright nel 2010.
Un primo tentativo pratico di soluzione arriva dal braccio tecnologico della Space Force Usa (con sede al Pentagono). La SpaceWerx, infatti, ha lanciato qualche mese fa un bando per risolvere il problema dei detriti spaziali. «Il nostro obiettivo attraverso Orbital Prime (nome del programma spaziale Usa di “pulizia”) è quello di collaborare con menti innovative dell’industria, del mondo accademico e degli istituti di ricerca per far avanzare e applicare la tecnologia all’avanguardia, favorendo concetti operativi per la mitigazione e la rimozione dei detriti», ha affermato un mese fa il capo delle operazioni spaziali, David Thompson. Una prima fase di selezione avverrà il 17 febbraio, quando coloro che saranno riusciti a convincere gli esperti della Space Force potranno ricevere fino a 250 mila dollari di finanziamento; successivamente, i progetti più promettenti potranno ottenere oltre 1 milione e mezzo di dollari e un eventuale contributo per l’intera operazione. L’obiettivo dell’organismo Usa è quello di arrivare, entro il 2025, a condurre una dimostrazione spaziale delle nuove tecnologie per la rimozione dei detriti.
Dall’altra parte dell’Atlantico, l’Agenzia spaziale europea ha assegnato alla startup svizzera ClearSpace un contratto da 86 milioni di euro, nell’ambito del programma Space Safety che mira a incentivare la sostenibilità spaziale, attraverso la rimozione attiva di detriti in orbita. Così, l’agenda prevede che nel 2025 il “cacciatore” ClearSpace-1 sarà lanciato nell’orbita inferiore per recuperare un detrito di lancio, di dimensioni simili a un piccolo satellite (denominato Vespa): attraverso 4 bracci robotici, verrà catturato e fatto deorbitare in atmosfera, dove brucerà.
Ancora, la Japan Aerospace Exploration Agency (Jaxa) ha selezionato la società Astroscale per studiare un programma di rimozione di detriti. Per il 2023 è previsto un primo lancio della navicella spaziale Active Debris Removal by Astroscale-Japan (Adras-J) che avrà intanto il compito di ispezionare una porzione di razzo giapponese, sulla base del quale dovrà realizzare un piano di deorbita.
Astroscale rientra inoltre, assieme alla startup italiana D-Orbit, tra i 13 progetti selezionati dall’Agenzia spaziale britannica che proprio qualche giorno fa ha annunciato lo stanziamento di 1,7 milioni di sterline a sostegno di operazioni spaziali sostenibili.