Il 9 marzo scorso i dipendenti della Walt Disney Company che fanno parte della comunità lgbt hanno pubblicamente assunto una posizione molto critica nei confronti della propria azienda, rea ai loro occhi di non aver preso posizione contro una legge approvata dal parlamento della Florida che censura il dibattito sull’orientamento sessuale nelle scuole. Una legge oramai ironicamente conosciuta con il nome “don’t say gay”. Sebbene i vertici della multinazionale abbiano risposto alle accuse affermando che preferiscono sostenere la causa attraverso la produzione di contenuti che stimolino il dibattito poiché ritengono questo atteggiamento il modo migliore per opporsi a provvedimenti di questo tipo, i dipendenti hanno comunque avviato le loro attività di protesta ritenendola una scelta di forma più che di sostanza.
Perché le aziende che si sono esposte con posizioni attive sul grande tema dei diritti cruciali per la nostra epoca, come la diversità e l’inclusione, negli ultimi tempi si stanno tirando indietro? Si chiede il periodico culturale statunitense The Atlantic. Il fattore che pesa maggiormente, sostiene, è che per quanto le aziende vogliano pubblicamente condividere i valori dei propri consumatori e dipendenti, sempre più appartenenti alle generazioni più giovani, nella realtà dei fatti poi continuano a preferire che gli stati siano governati da una politica più conservatrice tendenzialmente più attenta a favorirle sul piano fiscale e normativo.
Cioè a dire che la partecipazione delle aziende alla battaglia per i diritti civili sino ad oggi non è stata determinata da una spinta altruistica, dunque dalla condivisione di un percorso valoriale e culturale, ma in risposta alle pressioni interne di dipendenti e clienti. Perciò, se queste pressioni fossero incanalate in strategie organizzate, potrebbero raggiungere risultati maggiori e più assertivi.
Ma è una prospettiva ipotizzabile pensare di portare il dibattuto oltre l’arena politica? Soprattutto in un momento storico nel quale, per dirla con le parole del segretario generale dell’Onu António Guterres alla 49esima Regular Session dell’Human Rights Council, «i diritti umani sono sotto attacco, ovunque»?
Guterres evidenzia che, mentre le persone, molte delle quali donne e giovani, che sono in prima linea nel lavoro sui diritti umani attraverso l’attività quotidiana di advocacy, monitoraggio e indagine, stanno difendendo la nostra comune umanità, spesso esponendosi a un grande rischio personale, «le autocrazie sono in ascesa. Populismo, nativismo, razzismo ed estremismo stanno minando le società. La pandemia di Covid-19, le disuguaglianze e la crisi climatica stanno schiacciando i diritti sociali ed economici di interi continenti e regioni. Le divisioni si stanno approfondendo. Il sospetto e l’interesse personale sono in aumento. La tecnologia digitale è sempre più simile al selvaggio West».
E tuttavia «la politica dovrebbe essere dedita al benessere del popolo, non al potere dei governanti» dice l’edizione di quest’anno del World Happiness Report. «Mentre combattiamo i mali della pandemia e della guerra, è particolarmente importante ricordare il desiderio universale di felicità e la capacità degli individui di sostenersi nei momenti di grande bisogno». È infatti sempre più evidente che negli ultimi dieci anni la trasformazione dell’interesse pubblico si è andata sempre più raffreddando rispetto ai classici riferimenti al reddito e al PIL come valori su cui misurare sviluppo e benessere sociale, che sono diventati meno comuni dei riferimenti alla felicità. E il diritto alla felicità richiede proprio alla politica una progettazione che ponga necessariamente al proprio centro le persone.