Storytelling e storyactingIn tempo di guerra i brand non possono limitarsi alle parole, devono agire

Davanti a eventi così impattanti sull’intera società, le aziende non possono limitarsi a ricalibrare la propria comunicazione, ma devono assumersi una responsabilità diretta e operativa, chiudendo le filiali nei paesi aggressori o cercando di dare concretamente una mano ai rifugiati

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La Guerra nel cuore dell’Europa, in Afghanistan e in Ucraina, rappresenta un fatto impensabile, orribile, destabilizzante. 

Ognuno di noi, in questo momento buio, si sorprende costretto a fare i conti con paure, fantasmi e angosce che immaginava ormai relegate nel passato.

Anche per i brand, l’orrore che stiamo vivendo rappresenta una sfida inedita e diventa importante, cercando di astrarci dalla tristezza che ci attanaglia, cominciare a fare qualche riflessione su cosa questo terribile frangente ci insegna.

Ovviamente le Aziende di tutti i settori sono costrette a confrontarsi con il tema della Guerra in Europa, riposizionando il proprio brand in merito al fenomeno dei profughi e ai rapporti con la Russia.

Qui prendiamo ad esempio due Imprese del settore del Food, che più diverse non si potrebbero immaginare: la prima, Gustamundo, una realtà dal respiro tipicamente locale, con un brand conosciuto da una comunità di portata regionale; la seconda, McDonald’s, una grande società multinazionale, con un brand iconico a livello planetario.  

E raccontiamo due storie, che hanno a che fare con i conflitti in Afghanistan e in Ucraina.

Lo scorso 13 marzo è atterrato a Roma il volo che ha portato in Italia Edriss e Sayeeda, due giovani che da mesi attendevano di poter andar via dall’Afghanistan. Il corridoio umanitario è stato attivato da Gustamundo, un noto ristorante della Capitale, impegnato da sempre nell’inclusione sociale. 

Edriss e Sayeeda, sono il fratello e la sorella di Parwana, cuoca afghana che dal 2018 lavora presso Gustamundo, locale multietnico ideato da Pasquale Compagnone.

Dal 2017 Gustamundo ha dato lavoro a più di 60 chef rifugiati e migranti da tutto il mondo grazie al lavoro in rete con associazioni e organizzazioni umanitarie quali Amnesty International, Comunità di Sant’Egidio, Welcome Refugees, Baobab, Centro Astalli, Joel Nafuma Refugee Center e numerosi centri di accoglienza di Roma.

La nuova vita per Edriss e Sayeeda è partita, dunque, grazie a questa piccola e coraggiosa realtà imprenditoriale che promuove progetti di inclusione sociale sostenendo rifugiati e richiedenti asilo.

Il motto di Gustamundo è “ogni cena una storia”: i clienti del ristorante hanno l’opportunità di entrare in contatto con i cuochi e le cuoche di tutto il mondo, conoscerne la storia, il dolore e gli ideali, ma anche i piatti del loro Paese.

Sayeeda ed Edriss, ora a Roma con un visto per studio, all’Università di Siena potranno coltivare i propri sogni restando a pochi chilometri di distanza dalla sorella Parwana.

Ed è proprio Parwana a lanciare l’ennesimo grido ai media chiedendo di non spegnere le luci sull’Afghanistan: «ho temuto di non rivederli più, perché la situazione in Afghanistan è terribile».

Le attività di Gustamundo, intanto, non si fermano: Ilyas Mohammad, altro cuoco presso il ristorante, riabbraccerà a breve i suoi due figli che arriveranno in Italia dal Kashmir e che Ilyas non vede dal 2012.

Il brand trova nella solidarietà, nell’accoglienza e nella contaminazione tra civiltà ed etnie la propria cifra distintiva e caratterizzante.

Ma la tragedia della Guerra l’ha costretto a fare un salto di qualità, attivandosi come un vero e proprio soggetto operativo nel soccorso per profughi e rifugiati, proponendosi come un dinamico interlocutore per enti e autorità.

Significative le parole di Pasquale Compagnone: «Sono tanto felice, questo arrivo è un piccolo miracolo collettivo che ci ha tenuti con il fiato sospeso fino alla fine. Gustamundo però per le Istituzioni resta un’impresa commerciale e quindi non riceve l’attenzione che merita. Bisogna cambiare visione! Il mondo dell’inclusione passa attraverso lo studio, il lavoro, la casa e una vita dignitosa, perché si può essere impresa commerciale senza girarsi dall’altra parte». 

McDonald’s, colosso americano del fast-food, a fronte dell’aggressione all’Ucraina ha deciso di sospendere temporaneamente le proprie attività e chiudere tutti i suoi 850 ristoranti in Russia. L’azienda, peraltro, ha comunicato che continuerà comunque a pagare i circa 62.000 dipendenti russi.

Di grande valore simbolico la chiusura del locale a Mosca sulla Bolshaija Bronnaija Ulitsa, uno dei viali che partono dalla Ploshad’ Pushinskaija. È stata la prima sede aperta da McDonald’s nell’ormai ex Unione Sovietica: era il 31 gennaio 1990 e agli occhi dei moscoviti, oltre al Big Mac, si mostrava un avvenire nuovo, almeno sulla carta.

Quel ristorante fu lanciato sia per opportunità di business sia per marcare il segno di un mondo che era cambiato, in uno dei luoghi più simbolici della capitale: all’altra parte dell’Ulitsa Tveskaija, una delle principali arterie di Mosca, dalla quale si vedono le torri del Cremlino, c’è lo storico palazzo che ospita la sede del quotidiano “Izvestia”; di fianco, c’è la statua di Alexander Puskin, considerato il fondatore e punto di riferimento per la lingua letteraria russa.

Darija, cittadina moscovita, ha detto in questi giorni in una rivista ad “Avvenire”: «Nel 1990 ero piccola e sentivo i racconti delle persone in coda davanti al primo McDonald’s russo già dalla mattina. Mio figlio si incontra con i suoi amici lì dopo la scuola. Non avrei mai pensato che una cosa normale sarebbe diventata eccezionale».

Lì, a due passi dal teatro di Konstantin Stanislavskij, nel 1990 mettersi in coda per mangiare un hambuger, in mezzo a stolovije (le vecchie mense sovietiche) o qualche rivenditore nei sottopassi della metropolitana, rappresentava entrare in una nuova era.

La chiusura delle proprie attività, come per gli altri celebri brand dell’Occidente, comporta per McDonald’s dover sopportare ingenti danni di carattere economico, ma significa anche rendere di una evidenza eccezionalmente plastica e tangibile il fatto che l’aggressione all’Ucraina porta la Russia a piombare di nuovo in un passato che si riteneva ormai lontano.

Queste vicende, prese a campione tra tante altre, mettono in rilievo un concetto di fondo: i brand, di fronte a eventi di straordinaria portata, sono chiamati a una assunzione di responsabilità diretta e operativa.

Le aziende, in altri termini, dinanzi a fatti così impattanti sull’intera società, non possono limitarsi a ricalibrare la propria comunicazione, ad adattare il proprio Storytelling, ma hanno il dovere di passare fattivamente all’azione.

Uno degli autori di queste righe, su queste medesime pagine, ha di recente già sottolineato che il brand «nella società post-pandemia è più che mai chiamato a un dovere di lealtà verso i consumatori, ad andare oltre la semplice conquista emozionale e la mera intesa emotiva, mettendo in campo azioni concrete, misurabili e condivise»

Orbene, questo principio di verità, questo dovere di lealtà, rende necessario per l’impresa assumere iniziative concrete, anche a costo di pagarne un alto prezzo economico, in modo coerente con i valori propugnati dal brand.

D’altronde aveva già acutamente osservato Bruno Bertelli: «Oggi i brand oltre a parlare devono fare qualcosa di più. Ecco perché parlo spesso di storyacting, associato allo storytelling. Non è più il momento per declamare, ma occorre passare alle azioni, facendo qualcosa di tangibile e partendo dalla sostenibilità». 

Stiamo vivendo davvero giorni bui ed è estremamente difficile concentrarsi sul proprio lavoro: le tragedie in atto, in Ucraina come in Afghanistan, fanno sembrare poca cosa le nostre occupazioni quotidiane.

Ma occorre andare avanti e trarre qualche insegnamento, a seconda dei casi, piccolo o grande, anche dall’orrore che stiamo attraversando.

La Guerra, nella sua cruda assurdità, rende di palmare evidenza come nel Contemporaneo le Aziende siano tenute a stare dentro ogni fenomeno della società, anche il più drammatico e doloroso.

I brand, all’insegna del principio di verità e del dovere di lealtà verso le proprie comunità, in questi tragici frangenti non possono esimersi dal passare all’azione, mettendo in campo comportamenti conseguenti e iniziative tangibili.

Le tragedie in atto, in questa prospettiva, riprendendo le parole appena ricordate, scolpiscono con chiarezza un concetto: il brand non può più limitarsi a parlare, ma deve necessariamente anche agire, associando storytelling e storyacting.