Lol, si bullizzaLa crudeltà di mettere Corrado Guzzanti (e Virginia Raffaele) assieme a comici che non fanno ridere

La seconda stagione della trasmissione di Prime è un esperimento antropologico. Accostare un gigante della comicità adulta (e un’altra che gioca nello stesso campionato) a buoni mestieranti e a carneadi. Una scelta perversa e, insieme, la rappresentazione plastica che le classi sociali esistono ancora

frame da Youtube

L’ultima puntata della prima stagione di “Dynasty”, nella primavera dell’81, si concludeva con la convocazione d’una testimone a sorpresa in un’aula di tribunale; dimodoché, alla ripresa autunnale, “Dynasty” potesse diventare “Dynasty”, con l’ingresso di Alexis. Nessuno ricorda “Dynasty” per altro da Joan Collins, il che significa che nessuno ricorda la prima stagione di “Dynasty”.

Non ci voleva Marshall McLuhan per prevedere che Corrado Guzzanti fosse l’Alexis Carrington di “Lol”: quello che, con la sua sola presenza, fa risaltare l’irrilevanza altrui. Sono qui per formulare un’interpretazione laterale: che, se Corrado Guzzanti è ancora grande (è lo schermo che è diventato piccolo), è perché non ha figli.

Se eravate vivi in adiacenza della prima stagione di “Lol”, sapete com’è andata. Che nessun adulto rideva, ma tutti – tutti i peggiori adulti della storia dell’uomo, tutti i coetanei di Corrado Guzzanti e miei, tutta la generazione che ha rimpicciolito le proprie ambizioni fino a trasformare la genitorialità in un ruolo sociale – dicevano che lo guardavano volentieri coi figli, «i bambini ridono».

I miei coetanei sono determinati a ritenere intelligenti i figli. Ditemi se mai è esistito un segno di scemenza più clamoroso, per un adulto, che stimare i quindicenni. Ci parli e ti dicono «ai bambini piace», e non implicano «quindi è una puttanata», implicano «quindi è sicuramente un prodotto di valore essendo i quindicenni di casa dei piccoli geni».

L’altro giorno un padre mi ha detto entusiasta che la figlia rideva per i Blues Brothers, e neanche ha lasciato implicita l’implicazione: ha ben pensato di esplicitarmi quant’è orgoglioso della scarrafona che ride per commedie intelligenti. Non vi dirò che gli ho detto che una commedia intelligente è “Scandalo a Filadelfia”: i Blues Brothers è una puttanata per cui io e lui ridevamo a otto anni, e i quindicenni di oggi sono i nuovi ripetenti di terza elementare. Non ve lo dirò perché oggi ho da fare e non ho tempo di smistare i vostri «Tu Belushi me lo lasci stare capitoooo».

Quindi la primavera scorsa si verifica questo curioso fenomeno. Prime trasmette una delle cose meno divertenti della storia della televisione, tutti gli adulti che la guardano ne sono più o meno segretamente raccapricciati, ma nella conversazione collettiva la cosa passa per un successo; al punto che i comici d’un certo calibro – che, a parte Elio, erano assenti dalla prima stagione – esortano i loro agenti a offrire le loro prestazioni ai produttori di Prime (non guasta il fatto che Prime copra di soldi gli artisti come le tv non sono più in grado di fare: finché non esplode la bolla dello streaming, è bene approfittarne).

Il cast della seconda stagione ha equilibri sballati che rendono il programma un interessante esperimento antropologico. Cosa succede se metti su un set due talenti giganteschi (Virginia Raffaele e Corrado Guzzanti), due con un solidissimo mestiere (Mago Forest e Maccio Capatonda), e sei carneadi? Succede quello che, avendo noialtri disimparato a chiamare le classi sociali col loro nome, viene oggi considerato bullismo.

C’è in particolare un ragazzino che non riuscirebbe a far ridere neanche un dodicenne che avesse sniffato polverine esilaranti, uno su cui gli anziani del mestiere maramaldeggiano in modi che ti vien voglia di adottarlo, ti vien voglia di dirgli va bene, tizio di cui non m’incomodo a memorizzare il nome, non fai ridere, non fai ridere e vuoi fare il comico, ma insomma non puoi mica essere l’unico privo di talento a venire costantemente messo di fronte alla mancanza del proprio talento, in un secolo in cui l’essere delle pippe perlopiù viene condonato.

Poi c’è una, nota perché fa video in lacrime su Instagram perché il fidanzato l’ha mollata o perché ha detto le cose sbagliate sul vaccino, che qualunque cosa succeda non capisce. Virginia Raffaele fa Marina Abramovic, e lei chiede se sia Yoko Ono. Gli altri chiedono a una in costume da sirena dove sia la patata, Corrado Guzzanti dice «si aggiunge dopo la cottura», e lei non capisce la battuta. Sarebbe bello credere che lo faccia apposta, ma no, non è Marilyn Monroe, è carne al macello della gestione Guzzanti-Raffaele della seconda stagione di “Lol”.

(È interessante che sia Virginia Raffaele, nella prima puntata, a dire «se avessi saputo che c’era Corrado Guzzanti»: è interessante che sia l’unica che gioca nel suo campionato, a capirne la superiorità; gli altri, poveri illusi, credono d’esserne colleghi. O forse no. Forse, quando Corrado Guzzanti entra vestito da Quelo, sei così consapevole che quello è la storia della comicità e tu sei una caccola, che far finta di niente è istinto di sopravvivenza).

Probabilmente i quindicenni di casa rideranno col barboncino che si scopa la caviglia di Forest, o col carneade che si rasa i capelli. Io, che in genere di fronte a un comico bravo penso «che genio» ma mica rido, ho riso forte quando Guzzanti, facendo Venditti, ha attualizzato il testo di Grande Raccordo Anulare, sua meraviglia di repertorio, facendone un pezzo magnifico sulla Roma degli ultimi anni. «Er braciolaro, che mo cucina sopra l’autobus 38 barrato, che piglia fuoco sempre verso le nove: hai prenotato?», ma anche «sulla monnezza ce se abboffano i cinghiali, e ringraziate che ce semo noi che ve la smaltiamo». A margine, il marito della Ferragni (che conduce e fa da trait d’union coi quindicenni che cosa vuoi che sappiano, porelli) nota che Corrado sta imitando Venditti, così come aveva didascalizzato la Raffaele spiegando al pubblico più inattrezzato che «vuoi fare l’amore» era un’imitazione della Vanoni.

A nessuno dei concorrenti frega niente di vincere, a “Lol”. Vincere significa che puoi scegliere a chi dare in beneficenza il premio di centomila euro: ci fosse in gioco l’assai più corposo cachet che bonificheranno a te, magari t’importerebbe. Chi vince interessa solo ai produttori, che l’anno scorso si sono ritrovati con due carneadi come finalisti, e non potevano di nuovo risultare il programma dei comici che non fanno ridere e non interessano a nessuno.

Il meccanismo del gioco sarebbe che se ridi ti eliminano, ma la regia neanche fa finta che sia un meccanismo attendibile. Vengono tutti ripresi continuamente mentre, senza venire eliminati, fanno smorfie; le stesse smorfie per le quali altri vengono eliminati. A nessuno importa niente dell’equità, e soprattutto non al pubblico: se serve a tenerci lì Guzzanti per sei puntate, barate finché vi pare. Se poi riuscite a farne un personaggio fisso come accadde con Joan Collins, c’è il caso che le prossime stagioni di questo “Dynasty” le guardi anche qualche maggiorenne non smanioso di compiacere i figli.

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