Il governo ha colto l’occasione dell’introduzione di misure urgenti di contrasto agli effetti economici e umanitari della crisi ucraina, con il decreto-legge 21/2022 del 21 marzo scorso, per ampliare a dismisura il campo di applicazione soggettivo della disciplina sui poteri speciali d’intervento dello Stato a tutela degli asset strategici, il cosiddetto golden power.
Infatti, il Decreto Ucraina sottopone ad autorizzazione governativa, in via permanente, anche (a) le acquisizioni di controllo da parte di investitori stabiliti in Stati membri UE/Paesi SEE (inclusa l’Italia) nei settori delle comunicazioni, dell’energia, dei trasporti, della salute, agroalimentare e finanziario (incluse banche e assicurazioni), e (b) le acquisizioni di partecipazioni di minoranza superiori al 10% e 1 milione di euro (o al 15% senza soglie di valore), da parte di investitori non UE/SEE in tutti i settori “strategici”, già ulteriormente ampliati con il D.P.C.M. 179/2020.
Finora, invece, in regime ordinario il golden power si applicava alle acquisizioni da parte di investitori UE/SEE (anche di minoranza), solo nell’ambito della difesa e della sicurezza nazionale, e non negli altri settori di volta in volta aggiunti all’elenco dei settori “strategici”.
Questo ennesimo intervento tramite decretazione d’urgenza in tema di golden power conferma la tendenza a trarre spunto dalle contingenti evoluzioni dello scenario macroeconomico per rafforzare la “presa” del governo sull’economia nazionale. Basti pensare che a fine dicembre il “Decreto Milleproroghe” (d.l. n. 228/2021) aveva prorogato (per la terza volta), fino alla fine del 2022, l’efficacia delle norme straordinarie sull’esercizio dei poteri speciali nel periodo della pandemia, inizialmente introdotte con il “Decreto Liquidità” (n. 23/2020).
Le “regole Covid” prevedono che in via straordinaria e temporanea i poteri speciali del governo si applicano anche alle acquisizioni di controllo da parte di investitori stabiliti nell’UE/SEE, in qualunque settore strategico, nonché a determinate acquisizioni di partecipazioni di minoranza da parte di soggetti di Paesi terzi. Tali misure traevano giustificazione nella minaccia di un vulnus agli interessi economici del Paese in caso di acquisizioni potenzialmente “predatorie” di imprese operanti in certi settori strategici del tessuto economico nazionale, fragilizzate dal contesto pandemico. In tale contesto emergenziale, la novella contenuta nel Decreto Liquidità appariva in linea con analoghe misure adottate in altri Paesi e così poteva ritenersi sostanzialmente giustificata nella fase iniziale della pandemia.
In termini di policy, si potrebbe rilevare che un regime di golden power così strutturalmente “gonfiato”, oltre a costituire uno strumento potentissimo di dirigismo economico in mano all’esecutivo (inusitato in epoca repubblicana), pone un ulteriore disincentivo agli investimenti esteri, già proporzionalmente molto inferiori in Italia in confronto ad altre economie europee, e rischia così di indebolire, piuttosto che proteggere, la competitività del sistema produttivo nazionale.
In pratica, nessuna acquisizione di controllo potrà essere effettuata da investitori SEE nei settori “strategici” più rilevanti senza prima essere autorizzato dal governo. Quanto agli investitori extra-SEE, anche investimenti di minoranza bagatellari dovranno ormai essere notificati, senza distinguere se l’investitore è canadese o nord-coreano, il che comporterà una vera e propria esplosione del numero di procedimenti, per lo più inutili in quanto relativi ad operazioni non suscettibili di sollevare criticità.
A ciò si aggiunga che numerosi settori rilevanti oggetto dell’ultimo, strutturale ampliamento (ossia, comunicazioni, energia, trasporti e finanziario) sono già oggetto di dettagliata e complessa disciplina regolatoria sia a livello nazionale sia a livello europeo, intesa a tutelare interessi ed esigenze ampiamente sovrapponibili rispetto a quelli che il golden power dovrebbe tutelare, così creando un inutile intreccio di procedure.
Ma quel che più preoccupa in termini strettamente giuridici, ora che il nuovo intervento rende strutturale e permanente la disciplina emergenziale, è la scelta di andare allo scontro frontale con il divieto di frapporre ostacoli (anche solo burocratici) alla libertà di stabilimento tutelata dal Trattato UE. Questo principio ha effetto diretto, perciò i giudici italiani sono tenuti a disapplicare norme incompatibili dell’ordinamento interno.
Se si pensava di sfuggire al divieto rendendo la nuova disciplina applicabile anche a investitori italiani, non si è considerato che oramai da 50 anni la Corte di Giustizia ha chiarito che anche restrizioni derivanti da norme applicabili anche a cittadini dello Stato membro in questione sono comunque incompatibili, se non necessarie e proporzionate per tutelare specifiche esigenze imperative riconosciute dalla Corte stessa. È quel che è successo due anni fa con la Legge Gasparri nel noto caso Vivendi/Mediaset.
Per di più, la normativa golden power fu introdotta nel 2012 proprio per ovviare alle censure della Corte di Giustizia, che nel 2009 dichiarò contraria al Trattato UE la precedente normativa italiana sulle golden share negli statuti delle società privatizzate operanti in certi settori ritenuti genericamente strategici. Ed è per questo infatti che, fino allo scoppio della pandemia, non si era mai ipotizzato di applicare il golden power ad investitori UE/SEE.
Mentre il pendolo dei poteri speciali in Italia (così come in altri Paesi, tra cui la Francia) ha completato il suo moto armonico, andando oltre la stessa posizione di partenza del 2009 e rischiando di fratturare il Mercato Unico, rimane da chiedersi per quanto tempo ancora la Commissione europea, alla quale compete di vegliare sul processo di integrazione delle economie degli Stati membri, rimarrà alla finestra.