«Di rapporti ne ho letti tanti ma nessuno come questo. È una raccolta della sofferenza umana e un atto d’accusa schiacciante per il fallimento dei leader nell’affrontare i cambiamenti climatici. I colpevoli sono i più grandi inquinatori del mondo, che incendiano la sola casa che abbiamo». Sono state queste le parole pronunciate dal segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres in relazione alla pubblicazione avvenuta il 28 febbraio scorso, dell’ultimo Rapporto dell’Ipcc, il panel scientifico Onu sul cambiamento climatico redatto da 270 climatologi di 67 Paesi diversi.
Sono parole inequivocabili che non vogliono solo sottolineare l’accelerazione che questo allarmante trend ha registrato negli ultimi anni e tutti i relativi impatti sull’attività umana, sugli ecosistemi, sulla nostra vita e di tutte le specie viventi del Pianeta. Ma vogliono anche indicare alcuni punti chiave che emergono con chiarezza in questa edizione del report a differenza di quelle precedenti. Il primo è certamente che gli impatti devastanti del riscaldamento globale non sono più uno scenario probabilistico che avrà luogo in un imprecisato futuro ma sono già in atto e molto ben visibili: 3,6 miliardi di persone vivono in aree altamente esposte al caldo estremo, alla siccità e agli incendi, alle piogge torrenziali. Nell’ultimo decennio la mortalità per inondazioni, tempeste e siccità è stata 15 volte più alta nelle regioni altamente vulnerabili rispetto alle regioni con una vulnerabilità minore, cioè i paesi ad alto reddito. Oltretutto tra le aree più vulnerabili dove è maggiore l’impatto negativo del cambiamento climatico c’è l’Europa meridionale e in particolare l’area del Mediterraneo, inclusa l’Italia.
È anche la prima volta che un rapporto dell’Ipcc riconosce un ruolo attivo alla disinformazione, infatti scrive che «la disinformazione sulla scienza del clima ha seminato incertezza e impedito il riconoscimento da parte del pubblico, del rischio». Alcuni paragrafi dopo aggiunge che sia la disinformazione sia la politicizzazione della scienza del clima stanno ritardando la pianificazione e l’attuazione urgente dell’adattamento umano, questo perché «gli interessi acquisiti hanno generato retorica e disinformazione che minano la scienza del clima e ignorano il rischio e l’urgenza».
È vero che l’edizione di quest’anno del rapporto, rispetto alla precedente del 2014, spinge a acquisire una chiara consapevolezza che con un aumento di due gradi, invece che di un grado e mezzo come stabilito dall’accordo di Parigi, si moltiplicherebbero i rischi rendendo di conseguenza più complicato la gestione della crisi, e che, nonostante gli impegni sottoscritti da quasi duecento paesi nel novembre scorso alla Cop26 di Glasgow, ci stiamo avviando rapidamente verso un aumento maggiore di due gradi. Ma è anche vero, scrive il Guardian, che non compie il passo successivo e necessario, quello di nominare i colpevoli, le compagnie petrolifere che per curare gli interessi acquisiti hanno generato retorica e disinformazione compromettendo la scienza del clima e istigando a ignorare rischio e urgenza.
«Se ti stai chiedendo perché dal 1988 hanno incluso il personale delle compagnie petrolifere nel panel del Rapporto ma hanno fatto entrare gli scienziati sociali solo di recente, ti stai facendo una buona domanda» scrive il quotidiano britannico. E poi aggiunge che in quell’anno «una manciata di compagnie petrolifere e gruppi commerciali furono coinvolti nel processo dell’Ipcc. Il loro numero è cresciuto ogni anno, così come la loro importanza, e sono passati dall’essere osservatori e revisori a essere autori». Cosicché sono passati oltre trent’anni prima che l’Ipcc mettesse veramente in guardia il mondo sul cambiamento climatico con il tipo di urgenza che ha accompagnato questa edizione.