Sabato scorso il primo ministro israeliano Naftali Bennett è volato a Mosca con un solo obiettivo in mente: imporsi come principale mediatore nella crisi ucraina. «Israele ha l’obbligo morale di provare porre fine alla sofferenza umana nella guerra in Ucraina», ha detto il premier israeliano.
Bennett ha violato lo Shabbat, il giorno di riposo settimanale ebraico, per una buona causa, poi ha coordinato il viaggio con Stati Uniti, Germania e Francia, infine è arrivato in Russia, diventando il primo leader occidentale a incontrare Vladimir Putin di persona dall’inizio dell’invasione.
Contemporaneamente Israele si sta muovendo attivamente anche per aiutare il popolo ucraino. Il ministro degli Esteri israeliano, Yair Lapid, ha incaricato il ministero e il Mashav, l’agenzia israeliana per lo sviluppo e gli aiuti, di procedere alla creazione di un centro di assistenza ai rifugiati, creare un ospedale da campo a Leopoli e fornire tutti gli aiuti necessari alla popolazione.
Bennett non ha condannato del tutto l’invasione russa, o almeno non come i leader occidentali. Israele è uno dei pochi Paesi che ha buoni rapporti sia con la Russia che con l’Ucraina – Paese che ospita circa 200mila ebrei. Ed è il motivo per cui quella di Israele è una posizione delicata. «Quest’opera di mediazione internazionale nel bel mezzo della guerra potrebbe rivelarsi un campo minato per Israele», scrive Tia Goldenberg su AP. «Il Paese ha legami saldi con il Cremlino per quanto riguarda il coordinamento della sicurezza in Siria. E con Mosca seduta al tavolo dei negoziati con l’Iran sul suo programma nucleare, Israele non può permettersi di far arrabbiare il presidente Vladimir Putin».
Certo, Bennett vuole proporsi come mediatore anche per ragioni di politica interna, per rinvigorire il suo status dimostrando uno spessore internazionale e per invertire un trend negativo nei sondaggi. Ma i legami con Mosca sono importanti soprattutto per motivi strategici sullo scacchiere mediorientale.
Israele fa affidamento sulla Russia per il coordinamento della sicurezza in Siria, dove il Cremlino ha una presenza militare consistente. A fine febbraio il ministro degli esteri Yair Lapid aveva detto: «Abbiamo una sorta di confine con la Russia», in riferimento al confine settentrionale – lato siriano, appunto – dove diplomatici e consiglieri russi si sono trincerati fin dall’inizio della guerra civile siriana.
La Russia è anche una delle poche potenze che può tenere a bada l’Iran e le sue ambizioni da potenza egemone regionale. Come ha scritto il New Yorker, «l’Iran, come la Russia, ha forze in Siria che stanno aiutando a sostenere il regime di Bashar al-Assad. Ma Mosca ha consentito a Israele di contenere l’espansione della forza iraniana, temendo che in futuro possa diventare un potenziale rivale in grado di manipolare Assad. Anche per questo motivo Putin ha impedito all’esercito siriano di usare missili antiaerei S-300 contro Israele».
Russia e Israele hanno quindi interessi convergenti su alcuni punti, ma per Bennett fare da mediatore – e porsi quindi in una posizione neutrale tra Mosca e Kiev – significherebbe anche allontanarsi dal resto del mondo occidentale: posizione più difficile da mantenere in caso di ulteriore escalation militare del conflitto.
La scelta di Bennett attira quindi numerose pressioni sul suo Paese. E forse queste pressioni sono il motivo per cui Recep Tayyip Erdoğan fino a questo momento è rimasto piuttosto in ombra.
La Turchia ha nella Russia e nell’Ucraina due partner commerciali chiave, con Mosca che fornisce il 40% delle importazioni di gas naturale del Paese e il 25% delle importazioni di benzina.
Per la Turchia perciò l’ideale sarebbe una fine immediata del conflitto: la Russia non ne uscirebbe rafforzata e l’Ucraina manterrebbe la sua autonomia e i suoi rapporti con Ankara.
Teoricamente Erdoğan potrebbe ambire a un ruolo di mediazione da una posizione di forza. La Convenzione di Montreux del 1936 conferisce alla Turchia il controllo sul passaggio delle navi da guerra dallo Stretto dei Dardanelli e dallo Stretto del Bosforo, che collegano il Mar Nero con l’Egeo e il resto del Mediterraneo.
Normalmente è sufficiente una semplice notifica che anticipi il passaggio di una nave e da Ankara arriva il semaforo verde – con poche eccezioni. Durante una guerra, però, le navi da guerra possono utilizzare quel passaggio solo se non sono parte in causa nel conflitto.
Erdoğan potrebbe quindi brandire un’arma con un grande potere di intimidazione nei confronti di Putin. Ma dal canto suo l’autocrate russo potrebbe interpretare una chiusura come un atto ostile nei suoi confronti attaccare la Turchia su più fronti: potrebbe mettere discussione lo stesso accordo di Montreux, ad esempio, o usare una politica più aggressiva su alcuni dossier africani in cui russi e turchi si trovano a collaborare (come la Libia).
Nelle ultime settimane si è parlato anche della Cina come possibile mediatore nella crisi ucraina. «Il mondo sta osservando quali nazioni difendono i principi di libertà, autodeterminazione e sovranità», ha detto il segretario di Stato americano Antony Blinken. Mentre l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea Josep Borrell ha detto che «non possiamo essere noi i mediatori: deve essere la Cina».
Durante la conferenza stampa tenuta a margine dei lavori dell’Assemblea nazionale del popolo, il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha detto che Pechino vorrebbe giocare un ruolo costruttivo e lavorare con la comunità internazionale per trovare una soluzione al conflitto. Poi ha definito l’amicizia con la Russia «solida come una roccia».
Non è ancora arrivata, quindi, una vera e propria condanna all’invasione russa o una presa di posizione forte.
La comunità internazionale sa che molto probabilmente la Cina non si spingerà oltre la semplice – per così dire – richiesta di fermare i bombardamenti per evitare una crisi umanitaria su larga scala. Cioè non andrà oltre il suo personalissimo interesse: in questa fase storica la parola chiave per la Cina è “stabilità”, soprattutto sul piano diplomatico. Pechino vuole imporsi come quella che Xi Jinping definisce una «potenza responsabile» e non vuole che le frizioni europee abbiano echi sulla politica interna, dal momento che in autunno il Congresso del Partito comunista dovrà incoronare Xi per un terzo e inedito mandato. Il Vecchio Continente dovrà cercare in casa la soluzione ai problemi sul suo territorio.