L’etichetta “Moda Etica” è sinonimo di chi si oppone a pratiche produttive senza controllo nella produzione del tessile abbigliamento. Uno dei problemi di questo settore è infatti il controllo della catena produttiva che, di subappalto in subappalto, finisce molto spesso per perdersi in qualche sconosciuto capannone del sud est asiatico o di qualsiasi altro Paese dove metodi di produzione e trattamento della mano d’opera sono a dir poco impropri.
Ora le bombe di Putin hanno di nuovo acceso l’attenzione – questa volta virtuosa – di alcune aziende del settore su questa complessa problematica.
Dall’inizio di questo mese oltre 2,9 milioni di cittadini ucraini sono diventati rifugiati. Di fronte a questa emergenza, marchi moda inglesi, tedeschi, australiani e giapponesi si sono mobilitati per fornire opportunità di lavoro e supporto a lungo termine. Lo stanno facendo con modalità che potrebbero fornire un esempio da replicare a fronte di altre emergenze umanitarie, per rifugiati di altri Paesi che affrontano conflitti, eventi climatici disastrosi o violazioni dei diritti umani.
Del resto, dati Istat diffusi nella seconda metà dello scorso anno mettevano in evidenza la difficoltà, per molte imprese italiane, nel reperimento di mano d’opera adeguata. Particolarmente acuta la situazione nel turismo-ristorazione, assistenza sociale, conduttori di mezzi di trasporto nonché operai manifatturieri.
Esempi virtuosi in Europa
Mentre ancora nulla sembra ancora muoversi in Italia – che pure di manifatturiero e in particolare di quello tessile è ancora ricchissima – nel Regno Unito 45 imprese, tra cui Marks & Spencer, Asos e Lush, si sono attivate durante questa emergenza per offrire ai rifugiati un lavoro dignitoso mentre provano a riprendere il controllo delle loro vite.
L’azienda di cosmetica Lush assumerà, a partire dal prossimo maggio, 500 dipendenti stagionali, mentre altre assunzioni sono previsti per ruoli a lungo termine a tra cui terapisti termali, assistenti di magazzino e vendita al dettaglio, sviluppatori web e meteorologi.
Asos (moda e cosmesi) è invece interessata a reclutare ingegneri in nuove tecnologie, competenze che in Ucraina non mancano.
In Germania, Stitch by Stitch (tessuti sostenibili) a Francoforte ha già formato 16 sarte dal 2016. Il suo laboratorio di sartoria organizza tirocini triennali per rifugiati rilasciando poi un certificato che li aiuterà a trovare lavoro in futuro. L’azienda ha inoltre aiutato le dipendenti ad accedere a reparti di ginecologia o all’assistenza per l’infanzia, e ha scritto lettere di raccomandazione per aiutare chi ne ha bisogno a trovare un alloggio.
L’Europa ha offerto un rifugio aperto: gli ucraini potranno vivere e lavorare negli Stati dell’Unione europea per almeno tre anni e accedere all’istruzione e all’alloggio senza dover chiedere asilo.
Giappone e Australia
In Giappone, Uniqlo, attualmente il primo produttore di fast fashion al mondo, ha iniziato a collaborare con il Refugee Assistance Headquarters e altre organizzazioni già nel 2011, per fornire lavoro a persone autorizzate a vivere in Giappone in modo permanente con lo status di rifugiato. Il numero delle persone assunte aumenta ogni anno: nel 2021 sono state 120.
A Sidney, il marchio di moda etica The Social Outfit è stato fondato anni fa per offrire lavoro alle donne rifugiate che entrano in Australia. Ha assunto oltre 50 rifugiati in otto anni provenienti dallo Sri Lanka, dalla Siria e dalla Somalia. Ora sta formando 20 donne afgane. The Social Outfit paga a ore invece che a prodotto: una pratica comune e non etica che spesso procura alle sarte un guadagno inferiore al salario minimo. Il marchio offre anche lezioni di lingua inglese gratuite per i rifugiati che non può assumere a tempo pieno.
Nel settembre 2021, la sua fondatrice Camilla Schippa ha inviato una lettera aperta al primo ministro Scott Morrison, chiedendogli di aumentare le possibilità di assunzione di rifugiati in Australia. Più di 50 marchi hanno firmato con lei: senza interventi governativi che razionalizzano questi processi, le buone intenzioni delle aziende non bastano.
Si tratta di gocce nel mare rispetto ai numeri delle emergenze a cui va incontro il futuro del pianeta.