Il contraltare moraleLa tortuosa avanzata della cancel culture in Italia

Nel mondo statunitense i casi di censura sono sempre più frequenti, ma stanno arrivando anche da noi, pur con applicazioni maldestre e incerte. A definirne la pericolosità è la natura ideologica, quasi religiosa

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Il governatore del Texas Matt Krause ha inserito più di 800 testi in una lista nera – tra cui “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee, “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood e “L’occhio più azzurro” di Toni Morrison. Un senatore dello Stato dell’Oklahoma, Rob Standridge, ha presentato un disegno di legge per proibire i libri che trattano tematiche considerate vicine alla perversione sessuale, mentre in Tennessee è stata bandita dal programma di studi in una terza media la graphic novel “Maus” di Art Spiegelmann dedicata all’Olocausto, in quanto esporrebbe immagini di violenza, di nudo e una rappresentazione del suicidio considerate inaccettabili per un pubblico giovane.

Come spiega un lungo approfondimento dell’Atlantic, questi episodi si inseriscono in una dialettica già nota negli Stati Uniti, comune a destra e a sinistra, nel partito repubblicano come in quello democratico. La frangia più conservatrice del Paese si scaglia contro i contenuti ritenuti scabrosi, la frangia progressista impone l’accetta su tutto ciò che potrebbe essere percepito poco attento alla sensibilità delle comunità femminili, black e LGBT: “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee era già stato oggetto di dibattito a causa di presunte accuse di razzismo e per un certo periodo è diventato introvabile nello Stato di Washington. Un caso analogo riguarda “Le avventure di Huckleberry Finn” di Mark Twain, per il linguaggio storicamente crudo e l’uso di termini razzisti, volti a restituire lo spirito dell’epoca schiavista.

Sembrerebbe che tracce di censura stiano tornando in auge in tutto l’Occidente, attraversato da una spinta revisionista della propria storia e delle proprie origini. La traduzione della poesia “The Hill We Climb” della 22enne afroamericana Amanda Gorman, recitata durante la cerimonia di insediamento alla Casa Bianca di Joe Biden, ha suscitato controversie anche all’estero, soprattutto in Spagna e nei Paesi Bassi perché in una prima fase era stata affidata a due persone bianche, considerate inadeguate a capire e a restituire l’appartenenza alla comunità nera.

Enrico Mentana, in un post su Instagram del maggio 2021, aveva paragonato la cosiddetta cancel culture ai roghi nazisti del Novecento, dopo che anche Philip Roth aveva rischiato il linciaggio editoriale: le sue due biografie apparse negli Stati Uniti a poca distanza l’una dall’altra, il 6 aprile e il 3 maggio 2021, descrivevano le abitudini moralmente discutibili del romanziere e i dettagli più scabrosi della sua vita privata, al punto che sul Sunday Times era uscita la recensione della giornalista Claire Lowdon dal titolo “Lo scrittore come maniaco sessuale arrabbiato”. Per giunta uno degli autori, Blake Bailey, era stato accusato di molestie poco dopo l’uscita del volume – cosa che aveva indotto l’editore a ritirarlo precipitosamente dal commercio.

“Peter Pan” è stato precluso ai bambini dalla Public Library di Toronto, la Blossoms Books olandese ha abolito la figura di Maometto dall’Inferno di Dante, “Via col vento” è stato rimesso da poco in circolazione con il supporto di didascalie esplicative che giustifichino il clima e il linguaggio percepiti ancora una volta pericolosamente xenofobi.

L’Italia, invece, ne è apparentemente immune. Infatti la biografia di Roth è uscita in Italia senza alcuna polemica. Allo stesso modo è stato pubblicata l’autobiografia di Woody Allen, nonostante le accuse di abusi nei confronti della figlia adottiva sollevate dalla ex Mia Farrow, che avevano indotto la casa editrice americana a bloccarne le vendite. Nemmeno la traduzione delle poesie di Amanda Gorman non ha provocato scandali.

Da noi compaiono censure più sottili e subdole, come se l’intenzione non coincidesse mai con l’azione e nel mezzo si creassero confuse zone d’ombra. Lo sottolinea Roberto Carnero nel suo articolo del 26 febbraio su Avvenire. «Ma che senso ha censurare Pasolini (se di censura si tratta)?» si chiede l’autore, denunciando la scomparsa dall’epistolario di Pierpaolo Pasolini, riproposto dalla Garzanti lo scorso novembre in occasione dei cent’anni dalla nascita dello scrittore, di una lettera indirizzata all’amica Laura Betti. La missiva conterrebbe rimandi al rapporto di Pasolini con Ninetto Davoli, all’epoca minorenne, e secondo Carnero sarebbe stata omessa allo scopo di celare le inclinazioni sessuali dell’intellettuale, peraltro già ampiamente conosciute e discusse.

Nel 1956, il romanzo “Ragazzi di vita” valse a Pasolini un vero e proprio processo, da cui poi fu assolto, per reati di oscenità e pornografia.

Oggi, invece, si ricorre a scappatoie, a tentativi lasciati a metà, in cui non si capisce neanche bene contro cosa si combatte e perché. La cancel culture, se in Italia esiste, è appannaggio di un opinionismo perennemente oscillante e maldestro.

La settimana scorsa Paolo Nori è stato al centro di un acceso dibattito nazionale perché il corso su Dostoevskij che avrebbe dovuto tenere all’Università Bicocca è stato cancellato senza preavviso. In quanto caposaldo della letteratura russa, infatti, poteva suscitare tensioni e controversie: 48 ore dopo, l’ateneo ha fatto marcia indietro e il corso è stato ripristinato. Evidentemente la rettrice non si aspettava che una simile decisione si sarebbe trasformata in un cappio al collo capace di condannare per sempre la reputazione dell’istituto. Anzi, con ogni probabilità, era convinta di collocarsi all’interno di una wave condivisa trasversalmente da tutto il mondo democratico. Ad ogni modo, però, per Paolo Nori la questione era ormai chiusa e ha rifiutato l’offerta di allargare l’insegnamento ad autori ucraini.

Non è neppure la prima volta che lo scrittore si trova ad affrontare dispute di questo genere. Nel 2010 era stato  bacchettato dalle istituzioni culturali, in special modo dal critico Andrea Cortellessa, a causa della sua decisione di collaborare con il quotidiano di destra Libero. Paolo Nori aveva tenuto un incontro pubblico alla libreria Giufà di Roma assieme allo stesso Cortellessa, durante il quale si era giustificato e difeso dalle accuse.

In quegli anni si accavallavano anche i continui dibattiti su Silvio Berlusconi, ancora presidente del Consiglio e maggiore azionista del gruppo Mondadori. Gli autori che non si dissociavano dal marchio venivano tacciati di servilismo, come nel caso di Roberto Saviano, e lo stesso Berlusconi era accusato di cestinare i testi che potevano mettere in discussione la sua immagine. Una parte accusava l’altra di censura, quando la prima non esitava a bandire dai suoi confini chiunque rifiutava di depositare l’esercizio della propria emancipazione.

Si giocava allo stesso gioco, spinto non da presupposti razionali, ma aizzato dall’onda emotiva del momento.

Secondo Marco Imarisio, scrittore e giornalista del Corriere della Sera, la censura in senso classico «presuppone un apparato che le sta alle spalle. E in Italia non c’è niente del genere».

Si tratta di qualcos’altro. «L’Italia è caratterizzata da una ricerca ossessiva di zelo: l’ossessione per il politicamente corretto», che secondo Imarisio funziona a scatti, in contesti emergenziali e provoca due conseguenze: i nodi non vengono mai al pettine, nessuna questione viene mai risolta veramente, perché il polverone connesso a un episodio si assopisce insieme all’emotività che produce; e in secondo luogo viene sdoganata nei singoli cittadini la condizione per affermare tutto e il contrario di tutto, senza assunzioni di responsabilità.

Secondo Eugenio Capozzi, professore ordinario di Storia contemporanea all’Università degli studi di Napoli e autore di “Politicamente corretto. Storia di un’ideologia” (Marsilio, 2018), questo fenomeno è trasversale alla storia dell’intero Occidente. Le schermaglie interne agli Stati Uniti, i tentativi di ritaglio di intere porzioni di storia e di letteratura, la corsa al processo sommario per chiunque venga sospettato di comportamenti o linguaggi poco consoni, è espressione di un vero e proprio nuovo regime che sconfina certamente anche nel bavaglio censorio.

Dunque è la censura a essere figlia del politicamente corretto e non l’inverso.

L’Italia è semplicemente poco più indietro rispetto agli altri Paesi e sconta per di più le contraddizioni politiche e religiose della sua storia.

L’idea di Capozzi è che tutte le nazioni occidentali si sono aggrappate a una certa retorica per sopperire alla scomparsa delle ideologie otto-novecentesche. Il loro tentativo sarebbe dunque raccogliere i rimasugli di un apparato di pensiero dottrinale e integrarlo per sopravvivere, anche se esso si traduce nella condanna di sé e delle proprie fondamenta.

L’assunto alla base del politicamente corretto innalzato a ideologia è che qualcosa di profondamente malvagio è insito alla cultura occidentale. Questa malvagità congenita va curata e asportata attraverso un cambiamento radicale della mentalità e del modo di parlare.

Le parole diventano lo strumento principale della battaglia – basta soffermarsi sui tentativi di sdoganamento dello schwa, che tronca l’ultima vocale di alcuni termini scritti per educare a un linguaggio più inclusivo. L’obiettivo è estirpare il peccato originale dell’Occidente, rivedere, risanare, rimediare alla sua natura imperialista, razzista, misogina, omofoba, antiecologica. In altri termini, bisognerebbe ribaltare la concezione che l’uomo bianco ha di sé e della relazione con l’ambiente che lo circonda, sia esso familiare, politico, sessuale, e così via.

Si appella ai sentimenti e non alla razionalità perché la retorica del politicamente corretto divide la realtà, la storia, gli individui tra bene e male, tra luce e oscurità, e queste opposizioni pretendono adesioni unanimi, non concepiscono alcun relativismo, anzi, presentano evidenze che non possono essere negate.

Siamo tutti schiavi inconsapevoli di una nuova dottrina religiosa? Capozzi afferma che il rischio è proprio questo. L’Italia in particolare, dopo secoli a convivere e poi a combattere con la presenza invasiva della Chiesa sul suo territorio, ora potrebbe sostituire un padrone con un altro: di fatto, il politicamente corretto presuppone un contraltare morale rispetto alle azioni virtuose del singolo, esattamente come la disciplina cattolica delle origini. Ammaestra, punisce, premia le anime indisciplinate e peccatrici in un ritorno senza fine dello spettro bigotto tanto noto agli italiani.

Secondo Capozzi, i processi di secolarizzazione hanno indotto a una nostalgia del sacro che si tenta così di integrare, di recuperare.

Ma la verità è che di fronte a continue incursioni autoritarie rispetto alle pulsioni dell’umano, anticamente e storicamente imperfette, prima o poi potrebbe scatenarsi una controreazione, come è accaduto nel Sessantotto del secolo scorso, quando la società si è ribellata definitivamente al plagio della propria identità da parte di una morale cattolica già compromessa e ha sovvertito l’ordine fino ad allora costituito.

Esiste già un opinionismo che si pone al di là della narrazione mainstream e procede secondo lo slogan “non si può più dire niente”.

L’interventismo nella vita pubblica potrebbe però sopirsi definitivamente. La dissidenza andrebbe così a relegarsi nel privato, nell’intimità domestica, di nascosto e sottovoce, dove un tempo avvenivano le trasgressioni al senso di colpa cattolico, di cui la famiglia e la scuola erano spesso estensioni.

Diventeremmo dei buoni cittadini di facciata, apparentemente attenti all’inclusione, a come si parla, a cosa si dice e a come ci si comporta. Aspetteremmo il momento in cui l’autorità volta le spalle per tirare un sospiro di sollievo e lasciarci andare, e liberarci degli istinti più gretti, delle volgarità, degli insulti, dei pregiudizi.

Il solo modo per tutelare davvero i diritti delle singole minoranze è evitare di frammentare la società in categorie rancorosamente in lotta, suggerisce Capozzi. Bisogna tornare a concordare sul significato di “umano” e dargli un nuovo respiro unitario, universale. Altrimenti la deriva all’orizzonte è quella di un’élite scollata definitivamente da un popolo che la percepisce come dispotica e prevaricatrice, fumosa perché non più politica né intellettuale ma globale, figlia della tecnica e della competenza, del know-how manageriale.

I rancori e le vendette sarebbero allora dietro l’angolo.

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