Solidarietà europeaNei campi profughi in Romania dove arrivano le famiglie ucraine in fuga dalla guerra

Sono soprattutto donne e bambini a viaggiare verso Siret, città di frontiera, il più importante punto di passaggio nel Paese dove ogni giorno arrivano migliaia persone. Qui si compie un enorme sforzo umanitario che coinvolge istituzioni locali, ong da tutto il mondo e una rete di assistenza per primo soccorso, orientamento e beni di prima necessità

Credits Alessandro Balbo

Il vento gelido culla i minuscoli fiocchi di neve che da giorni imbiancano i campi sulle colline tutt’intorno. Anna gioca con i sassolini di asfalto in una buca a bordo strada. La mamma, Tatiana, si assicura che non si avvicini alle auto che passano di fianco. Arrivano da Kiev e si distraggono un po’ in attesa che arrivi il pullman, vestite pesanti per combattere un freddo che fa battere i denti e spacca la pelle delle mani.

Anna e la sua mamma sono tra le decine di migliaia di profughi ucraini arrivati in Romania dall’inizio dell’invasione russa, il 24 febbraio. Qui alla frontiera di Siret, il più importante punto di passaggio nel Paese, ieri sono passate 7500 persone. Sono per la stragrande maggioranza donne e bambini: agli uomini tra i 18 e il 60 anni non è concesso lasciare l’Ucraina. Dall’altra parte le code in auto raggiungono i 10 km. Anche arrivando a piedi, per passare ci vogliono ore. Un flusso che, come il vento, non trova resistenza.

Secondo i dati dell’Unhcr, sono oltre 2 milioni e 155mila le persone fuggite dall’Ucraina all’inizio della guerra: un milione e 300mila in Polonia, 203mila in Ungheria, 153mila in Slovacchia, 100mila in Russia, 82mila in Moldavia. Anche la Romania ha visto entrare oltre 85mila profughi, attraverso i punti di frontiera di Sighetu e, appunto, Siret.

Per loro, per la prima volta nella storia, l’Unione europea ha previsto una protezione temporanea di un anno, estendibile di altri due anni, in applicazione della Direttiva 55 del 2001. Qui al nord della Romania, a differenza di quanto accade al confine con la Serbia – dove frontiera significa quasi certamente ostilità, violenza, abuso e tortura – le porte del Paese sono completamente aperte.

Qui i profughi possono contare su un monumentale sforzo solidale e umanitario che coinvolge istituzioni locali, organizzazioni non governative da tutto il mondo e cittadini, in una rete di assistenza che si traduce in primo soccorso, orientamento, fornitura di cibo, indumenti e beni di prima necessità e trasporto, in tutta Europa.

Autorità e volontari aiutano le persone a trasportare i bagagli, trovare un riparo o un pasto caldo, in attesa che vengano compilati i documenti necessari o che qualcuno li venga a prendere.

Chi fugge in queste settimane sa già dove andare, quasi sempre. Anna si sposterà con la famiglia, di religione ebraica, dai genitori della mamma. Anche il papà, Mark, è riuscito a uscire dall’Ucraina: grazie alla doppia cittadinanza ucraina e isreaeliana, non è obbligato a rimanere nel Paese per combattere. «Sono nato in Ucraina, ma quando avevo 17 anni, dopo la scuola, sono andato a vivere in Israele» racconta. «Ho vissuto lì dal 1994 al 2007, e ho conosciuto la guerra. Dopo il 2007 sono tornato a vivere in Ucraina, fino ad oggi. Fino a poco tempo fa io e la mia famiglia pensavamo che tutto nella nostra vita, tutto, andasse a meraviglia. Ora dobbiamo correre via dalla guerra».

Ci hanno messo cinque giorni ad arrivare qui da Kiev: «All’inizio siamo andati in una piccola città nella regione di Poltava. Pensavamo che la guerra non arrivasse fin lì, ma abbiamo dovuto spostarci di nuovo, questa volta a est. La cosa più orribile è che le persone ora hanno le armi. Nessuno sa chi siano, ci sono solo moltissime armi in giro», dice Mark.

Per lui questa guerra è come uno spartiacque nella storia ucraina: «Dopo l’invasione della Crimea nel 2014 gli ucraini eravamo divisi. Chi pensava fosse giusto, chi pensava fosse sbagliato. La guerra di Putin ha cambiato tutto. Ora siamo uniti».

Tra gli attori solidali presenti a Siret c’è anche la ong medica italiana Rainbow for Africa. Nata a Torino nel 2007, è impegnata a livello sanitario su più fronti: in Etiopia, Burkina Faso e Senegal si occupa di formare il personale sanitario locale e incrementarne l’equipaggiamento medico; in Italia, oltre a promuovere l’educazione alla cooperazione e all’integrazione degli immigrati nel tessuto sociale, dal 2017 fornisce assistenza medica lungo la rotta migratoria in Val di Susa.

«Questo è un progetto di sopralluogo» spiega Stefano, che si occupa della logistica. «Nelle prime ore dall’inizio della guerra la situazione era decisamente più grave, ma ora si sta regolarizzando. Purtroppo immaginiamo che l’emergenza durerà nel corso del tempo. La bellissima gara di solidarietà che c’è stata in tutti i Paesi ha portato una buona quantità di materiali. Ma la fase più importante da seguire sarà nelle prossime settimane».

Fino ad ora a fuggire sono persone della middle-class, con la facoltà economica di spostarsi velocemente fuori dal Paese e già con una destinazione prefissata, ma in futuro le caratteristiche dei flussi potrebbero cambiare.

Oltre ad aumentare di numero (si stimano 4 milioni di profughi in futuro), è probabile che aumenteranno coloro che non sanno dove andare, o che hanno maggiori necessità sanitarie. La solidarietà deve continuare, e deve organizzarsi.

A gestire l’arrivo e l’accoglienza di persone nell’area di confine sono principalmente i pompieri locali, paragonabili alla Protezione civile italiana. Sono loro a gestire i campi profughi nati nei dintorni, in cui per ora si soggiorna mediamente per un massimo di 48 ore, giusto il tempo necessario perché le autorità compilino i documenti utili.

A Siret c’è il campo principale, realizzato al centro dello stadio comunale. Da qui i camion dei pompieri fanno la spola con la frontiera per trasportare i profughi al riparo. Nel campo ci sono due gruppi di tende blu sulla destra e sulla sinistra, che servono per il soggiorno temporaneo. Le tende arancioni al centro, più grandi, fungono da spazi comuni, principalmente per i pasti.

Credits Alessandro Balbo

«C’è una presenza medica fissa, ma qualsiasi cosa si possa fare in più è benvenuta», dice il comandante. «Non adesso, ma quando arriverà molta più gente. La capacità massima è di 402 posti. Oggi ne abbiamo più di 300 ma stanno aumentando. Chi verrà nelle prossime settimane resterà qui più a lungo».

Un altro campo è stato allestito nella città di Milișăuți, dove c’è una storia nella storia: la palestra riconvertita ospita alcune centinaia degli oltre 20mila studenti universitari indiani rimasti in Ucraina dopo l’inizio della guerra.

Il governo indiano, presente qui con un suo rappresentante, si è attivato subito per organizzare la loro evacuazione, e finora ne sono stati riportati a casa oltre 9mila dal vicino aeroporto di Suceava. Amandeep Singh, 23 anni, viene dal Punjab, studiava medicina a Kharkhiv, una delle città più colpite dall’offensiva russa, compresi bombardamenti sulle abitazioni civili. Viveva in un collegio con altri 160 ragazzi: «È davvero una situazione scioccante – dice – esplosioni, bombardamenti, è davvero difficile sopravvivere lì. Un mio amico è rimasto ucciso. Ci siamo spostati per qualche giorno in un altro lato della città, abbiamo aiutato a fornire cibo e aiuto, si sentivano le esplosioni e i bambini che piangevano. Anche la mia università è stata distrutta. A Kharkhiv è tutto finito».

Credits Alessandro Balbo

Nel pomeriggio torniamo alla frontiera. Il gruppo di Rainbow for Africa è in contatto da giorni con Oleg, un chirurgo che opera nella città ucraina di Černivci, a 40 km dal confine. Lì, per ora, la guerra non è ancora arrivata, ma nell’ospedale gli interventi sono stati sospesi.

Oleg, tramite una rete informale, si è accordato con l’associazione per il trasporto in Italia di Yuri (nome di fantasia), un bimbo di sei mesi affetto da una malformazione anorettale congenita, per cui servono successive operazioni chirurgiche impossibili da effettuare a Černivci. Nel corso della giornata il Policlinico di Milano ha dato disponibilità ad accoglierlo, e il personale di Rainbow decide di andare nella zona neutrale del confine ad attendere il suo arrivo, accompagnato dalla mamma.

Verso sera arriva la buona notizia: Yuri è arrivato in tempo, si può ripartire. Alle 18, lui e la mamma iniziano con noi il viaggio di oltre 20 ore verso il Policlinico. Lei non parla una parola di inglese, solo ucraino. Fino al mattino dopo riusciamo a comunicare esclusivamente tramite Google Translate, con domande a risposta secca volte principalmente ad assicurarci che stiano bene. Solo dopo molte ore riusciamo a farla parlare con un’interprete che possa fornirle un po’ di conforto.

Capiamo che sono originari di Černivci, e che senza la grave condizione del figlio non sarebbe mai uscita dall’Ucraina. Lì ha lasciato la madre e un’altra figlia, di tre anni. È serena, e punta a tornare a casa una volta finito tutto. Gli occhi blu del suo bambino ci accompagnano per i 1700 km del tragitto di ritorno. Arriva al Policlinico sano e salvo, senza un lamento. Il vento della guerra ha cambiato la sua vita, forse per sempre, ma riceverà le cure necessarie. Poco più tardi arrivano notizie da Černivci: allarmi antiaerei in tutta la città. Yuri è scappato appena in tempo.

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