Le sanzioni economiche come strumento di pressione politica verso un paese che ha violato il diritto internazionale furono introdotte per la prima volta dalla Società delle nazioni nel 1935 nei confronti dell’Italia di Mussolini che aveva invaso l’Etiopia. Da allora sono state adottate in differenti occasioni ma senza aver mai goduto di buona reputazione. Quattro sono le critiche principali a esse rivolte:
- Ex post si sono in genere rivelate poco efficaci: il Paese sanzionato non ha subito rilevanti conseguenze e in ogni caso non è ritornato sui suoi passi, rimuovendo i comportamenti per cui esse erano state imposte.
- Sono considerate, a ragione, come armi a doppio taglio: contraendo scambi economici e trasferimenti finanziari reciprocamente vantaggiosi per le parti si rivelano reciprocamente penalizzanti, dunque sia verso chi le subisce che verso chi le impone.
- Sono criticate per gli effetti distributivi: è più probabile infatti che danneggino in maniera significativa i comuni cittadini anziché i decisori politici che hanno attuato scelte riprovevoli e i gruppi sociali che li sostengono.
- Nella migliore delle ipotesi producono effetti percepibili e significativi solo nel medio/lungo periodo mentre al contrario le decisioni politiche che dovrebbero contrastare generano effetti negativi già nel breve e brevissimo periodo, come è nel caso attuale l’invasione russa dell’Ucraina e lo fu ai tempi quella italiana dell’Etiopia.
Queste quattro critiche vanno considerate attentamente nell’analizzare le recenti sanzioni alla Russia, per valutarne bontà ed efficacia. In linea generale è argomentabile come nel caso specifico esse si applichino molto poco, o comunque molto di meno, rispetto alla storia passata delle sanzioni economiche.
Le sanzioni verso la Russia sono infatti consistenti, ad ampio raggio, mai viste in precedenti casi, e riguardano numerose tipologie di rapporti economici oltre a essere attuate da una molteplicità di Paesi, grazie al coordinamento che vi è stato tra Stati Uniti, Regno Unito e Unione Europea, alla quale si è associata pure la Svizzera. Dunque il loro impatto è atteso come rilevante rispetto alle esperienze passate e i loro effetti sono in grado di manifestarsi già nell’immediato anziché risultare diluiti nel tempo.
Una ragione della maggiore e più rapida efficacia è il fatto che esse, nell’ultimo ampliamento che vi è stato, si sono concentrate sui rapporti finanziari anziché sull’interscambio commerciale, che era invece la modalità standard delle sanzioni vecchia maniera. In genere esse funzionavano col divieto all’export verso il paese sanzionato di beni chiave per il funzionamento di quel sistema economico, e del suo apparato militare, ma anche di beni di consumo ad ampia diffusione, con l’obiettivo specifico di segnalare all’opinione pubblica di quella nazione il dissenso del resto del mondo.
Così fu per l’Italia di Mussolini ma anche se le sanzioni furono approvate da una cinquantina di Paesi non pochi di essi non le misero in pratica oppure lo fecero in maniera disattenta e col desiderio inconfessato di poterle rimuovere al più presto. Inoltre alcuni grandi Paesi come gli Stati Uniti e la Germania non aderivano alla Società delle nazioni e dunque non le adottarono proprio.
Alla fine esse furono rimosse dopo soli sette mesi e ottennero l’effetto opposto a quello desiderato poiché il regime le sfruttò propagandisticamente per accrescere il suo consenso e avviò programmi di contrasto, più mediatici che significativi, come quelli dell’oro alla patria e dell’autarchia economica, finalizzata a produrre in casa prodotti sostitutivi di quelli che sarebbero venuti meno (dai carburanti e tessuti sintetici al cuoio artificiale e ai surrogati di beni coloniali, come il caffé d’orzo o di cicoria e altri beni alimentari dal contenuto merceologico alquanto dubbio come l’uovo sintetico…).
Solo due beni avrebbero potuto mettere in ginocchio l’economia italiana e lo sforzo bellico del regime ma non furono inseriti nel divieto di export: il petrolio e il carbone, per i quali vi era una quasi totale dipendenza dagli approvvigionamenti esteri. Non ebbe invece grandi effetti il divieto di vendere agli italiani il foie-gras.
Nel caso della Russia il divieto all’export, che è facilmente aggirabile tramite triangolazioni con paesi terzi che non applicano le sanzioni, è stato limitato ad armamenti, come già nelle precedenti sanzioni del 2014, beni tecnologici passibili di uso militare o comunque di uso misto, come i ricambi e la componentistica degli aeromobili, o per lo sfruttamento delle risorse naturali. Non sono stati inseriti invece beni di lusso la cui mancanza avrebbe potuto attentare al tenore di vita delle classi alte e altissime, favorite dal regime con esso compromesse. Così l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Josep Borrell ha dovuto immediatamente far marcia indietro dopo aver annunciato su Twitter che gli oligarchi non avrebbero più potuto «fare shopping a Milano, feste a Saint Tropez e comprare diamanti ad Anversa» o nelle gioiellerie di Mosca e San Pietroburgo.
Tuttavia il mancato effetto del divieto di esportare beni di lusso e fornire servizi turistici è stato conseguito ancora meglio per altre vie: le sanzioni nei rapporti finanziari, il blocco del trasporto aereo col totale annullamento dei flussi trasportistici da e verso la Russia e il sequestro dei beni detenuti in occidente dai grandi oligarchi quali yacht e immobili. Così in teoria essi potrebbero ancora venire a fare shopping a Milano o Anversa o feste a Saint Tropez ma non più coi loro aerei privati né potrebbero, se i sequestri andranno avanti come quelli visti in questi giorni, trovare pronte le loro imbarcazioni e le loro case. E affittare su Airbnb per raggiungere poi la Costa Azzurra prendendo il treno da San Pietroburgo per Helsinki assieme ai comuni mortali non fa certo parte del loro stile di vita.
In teoria possono ancora comprare beni di lusso occidentali stando nel loro Paese ma dovrebbero pagarli con valuta pregiata che a Putin serve invece per approvvigionamenti molto meno voluttuari. E questi beni, che solitamente viaggiano col cargo aereo, dovrebbero imbarcarsi su navi mercantili. Un viaggio piuttosto lungo e complicato.
Rispetto alle sanzioni commerciali, storicamente poco efficaci e con effetti di lungo periodo, le sanzioni chiave hanno invece riguardato i flussi finanziari per pagamenti, investimenti e impieghi del risparmio. Si è privilegiata in questo modo la recisione dei rapporti finanziari che porta comunque con sé anche quella dei rapporti commerciali, data l’impossibilità di effettuare i pagamenti che essi rendono necessari.
Questo tipo di sanzioni si è sviluppato su tre direttrici. In primo luogo il divieto di accesso alla banche e alle imprese russe, ma anche ai risparmiatori, ai mercati finanziari occidentali, precludendo la possibilità che essi ricevano finanziamenti o possano effettuare depositi. Questa sanzione, tra le prime adottate, è destinata anch’essa a produrre i suoi effetti diluiti nel tempo e non è dunque quella chiave mentre lo sono invece le due restanti.
L’estromissione delle banche russe, purtroppo non tutte, dalla piattaforma internazionale dei pagamenti Swift rende estremamente problematico effettuare e ricevere pagamenti dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti e dunque crea difficoltà anche agli scambi commerciali, dato che nessuno è disponibile a vendere se non può essere pagato. Proprio per questa ragione, pur essendo state incluse nella sanzione molte delle maggiori banche, due di esse come Sberbank e Gazprombank sono state lasciate fuori proprio per consentire ai Paesi occidentali di continuare a pagare, e dunque anche di continuare a ricevere, gas e petrolio russi.
Questa è una falla non piccola nelle sanzioni che andrebbe chiusa al più presto ma lo si può fare solo rinunciando all’approvvigionamento russo e dunque sostituendolo con quello di altri Paesi e, almeno in parte, provando a risparmiare sui consumi. La lotta per la difesa delle libertà dei cittadini ucraini e dell’indipendenza e integrità del loro Paese val bene qualche limitato sacrificio in termini di case meno calde e minori percorrenze delle nostre automobili.
Il provvedimento di maggior impatto è stato senza dubbio il congelamento delle riserve valutarie della banca centrale russa detenute presso altre banche centrali e istituzioni finanziarie occidentali. Queste riserve, incrementate nel tempo coi proventi in valuta pregiata delle cessioni di gas e petrolio, sono cresciute negli anni recenti portandosi da circa 400 miliardi di dollari nel 2017 agli attuali 640 miliardi, corrispondenti al 40% per cento del Pil nazionale russo. Esse rappresentavano il deposito di zio Paperone di Putin, il fieno in cascina pronto per essere speso in occidente o altrove per finanziare gli approvvigionamenti esteri richiesti durante, e si presume dopo, la campagna militare.
Qui però è stato fatto un errore rilevante: la banca centrale russa ha ridotto drasticamente gli asset detenuti negli Usa già nel 2018 ma li ha spostati su altre istituzioni occidentali tra Francia, Germania, Regno Unito e Giappone, non temendo evidentemente che potessero essere a rischio. E invece sono stati tutti bloccati, per un ammontare stimato in almeno 350 miliardi, ma potrebbero anche arrivare a 400, dei 640 totali. Essi pertanto non potranno più essere utilizzati per i pagamenti in valuta pregiata della Russia né per sostenere il cambio del rublo, contrariamente a quelli che erano con certezza i piani originari.
Dei restanti 240-290 miliardi si stima che almeno 130 siano riserve auree, queste di solito fisicamente detenute presso la banca centrale, ma nell’attuale fase molto più difficili da convertire in valuta e persino da trasportare, vista la chiusura degli spazi aerei. Se saranno vendute dovranno quasi certamente volare verso la Cina (così come nel 1936 quelle della Banca di Spagna dovettero essere portate a Mosca, un precedente non di grande auspicio), accrescendo ulteriormente l’influenza di questo Paese.
In sostanza la Russia potrebbe presto trovarsi a corto di soldi per effettuare i pagamenti esteri e per approvvigionarsi fuori dai propri confini e se l’occidente riuscisse a comprarle meno gas e petrolio questo momento potrebbe essere sensibilmente avvicinato.
Le sanzioni adottate sono state enormi, anche se non hanno portato alla totale recisione dei legami economici e finanziari, e con tutta evidenza anche completamente inattese nella loro portata e per l’ampiezza dei paesi coinvolti.
I loro effetti sull’economia russa sono stati evidenti sin da subito: il rublo, il cui cambio viaggiava a circa 75 unità per dollaro all’inizio della crisi è salito rapidamente sino a circa 120, perdendo quasi il 40% del suo valore, e questo nonostante il raddoppio del tasso principale della banca centrale, salito dal 9,5 al 20%, con prevedibili rilevanti effetti recessivi sull’economia russa. La borsa di Mosca è stata chiusa e si prevede che vi resterà per lunghissimo tempo.
Il crollo del Prodotto interno lordo sarà inevitabile anche se bisognerà attendere per poterlo misurare. L’economia lavora dunque contro Putin, si spera che anche la politica occidentale sappia farlo.