Le nociPenso alla mia famiglia accerchiata dai russi e a quel giorno di felicità lontano

Sei mesi fa, Yaryna Grusha Possamai era tornata in Ucraina per rivedere parenti e amici dopo due anni di pandemia. Era stato un giro quasi turistico, dove si erano ritrovati e avevano scherzato insieme. Ora, dopo l’invasione, teme per la loro vita, dispersi e sotto il tiro dei soldati

AP Photo/Bernat Armangue

Penso a quella calda giornata di luglio, quando presi l’autobus dalla stazione in periferia della capitale ucraina di Kiev direzione Ivankiv. Erano due anni che non vedevo i miei genitori – causa pandemia – e finalmente ho trovato tre settimane di fila libere per andare in Ucraina dall’Italia.

Il vecchio autobus si avvicina al centro di Ivankiv, vedo i miei due “hryboky”, i funghetti, perché, con i loro cappellini sulla testa, sembrano due chiodini attaccati uno all’altro.

Un abbraccio forte, tutti e tre insieme, per creare quella cerchia stretta che ci ha portato avanti oltre le distanze e oltre la pandemia, fino a qui. Fino a questa stazione.

Ci mettiamo in macchina e andiamo verso la casa nel giardino, sotto quegli alberi con le chiome larghe e tenebrose. Sotto il noce, intorno ad un tavolo lungo, ospiteremo il mio professore di matematica con sua moglie e il figlio, che abita ora in Danimarca. Rideremo dei vecchi tempi, ricorderemo le partite della Dynamo Kiev con il giovane Shevchenko e la sua tripletta nella porta del Barcellona, mangeremo le patate novelle raccolte nell’orto e la moglie del mio prof spiegherà a mia mamma come coltivare correttamente le arachidi.

Poi prenderemo la macchina e andremo tutti insieme nel “rajon”, la provincia adiacente, dove abitavamo tutti insieme qualche tempo fa. Come in un giro panoramico in carrozza, passeremo la torre dei pompieri, la nostra vecchia casa nascosta tra i cespugli crescenti, la mia scuola, adesso tutta a colori. I sorrisi, le chiacchiere, il sole che scende dietro le nostre spalle.

Solo sei mesi dopo, con un messaggio mandato alle sei del mattino, la moglie del mio prof di matematica scriverà al figlio in Danimarca: «Bida, che guaio, è iniziata la guerra». Loro sono stati travolti tra i primi, a causa della vicinanza al confine con la Bielorussia. Non si può più scappare via, soltanto nascondersi in un bunker sotto un dormitorio accanto alla scuola colorata.

Alcuni escono per prendere le provviste e arriva un colpo di cannone. Un secondo dopo, tre piccole figlie perdono sia la madre che il padre. Con la madre andavamo a scuola insieme e ora in quella scuola, quella a colori, ci lavorava. L’elettricità è saltata. Il collegamenti con il “rajon” anche.

Il mio prof di matematica riesce a spostarsi nel paese vicino, a casa dei suoi suoceri, dove la linea prende in qualche modo. Ma nella casa ci sono un cavallo e delle galline mentre in quella vuota, di fianco, gli occupanti russi. Per ora solo in quella vuota. Lo seguono con il fucile ogni volta che viene a dare da mangiare alle bestie, hanno paura della rivolta dei civili. Ma i civili in quel paese sono circa 300, i paesi sono lontani uno dall’altro, sparsi nella pianura della Polesia.

I carri armati russi avanzano, arrivano in quella città di Ivankiv, la città della fermata dei hryboky”. Forse la fermata non c’è più. Mi confermano che la farmacia, le case vicili, i negozi, non ci sono più. Come anche i membri di tante famiglie. Il paesino è assediato.

I miei genitori, a 5 km da quella fermata, sentono tutto, non dormono, non hanno un bunker. A un certo punto la connessione salta per 24 ore. Le peggiori di sempre. Mia mamma trova in casa un’altra scheda, che prende a malapena, fa sapere a mia zia che stanno bene, mia zia mi scrive un messaggio. Il più bello di sempre.

Penso a queste fredde giornate di febbraio, alla spolverata di neve che vedo sui cappucci di miei due “hryboky”, che la mattina riescono a trovare qualche segnale internet e a chiamarmi in video chiamata. È passata solo una settimana, ma mi sembra una vita. C’era la vita prima? Labbiamo vissuta noi? Se quella era la nostra vita, cos’è questo allora? Come si può nominare questa entità di tempo di attesa passata nei bunker, di terrore dei bombardamenti, di mine intorno alle case, del cielo che ti crolla addosso…

Penso allo smartphone rotto di mia mamma e anche al dente rotto di mio papà. Niente più neve sui cappucci. Ora usano un vecchio cellulare gsm e non mangiano più le noci per non perdere i denti. Quelle noci che hanno raccolto dopo la mia partenza a luglio, da quell’albero che ci riparava dal sole, ma non può proteggerli dalle bombe.

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