How Putin made the EU great again. Domenica con questo titolo Politico ha salutato l’inatteso ritorno di un’Europa grande e unita grazie all’aggressione dell’Ucraina e agli azzardi di Putin, ricordando come, fino a poche settimane prima, nei principali Paesi europei, a partire dalla Germania, si mostrasse invece scetticismo verso gli “isterici” allarmi americani sull’imminente attacco a Kiev e si dichiarasse una totale indisponibilità a fornire armi agli ucraini, per resistere all’offensiva di Mosca.
Nello stesso giorno in cui usciva questo articolo di Politico, Ursula Von der Leyen annunciava il proprio sostegno all’adesione dell’Ucraina all’Ue e, per la prima volta nella storia europea, anche il finanziamento per l’acquisto di armi per le forze di difesa ucraine. Tutto, davvero, straordinario e inaspettato. Ma tutto ancora così esposto al corso degli eventi e agli esiti della guerra, che sarebbe seriamente azzardato considerarlo come un risultato consolidato o come l’inizio di una nuova fase della storia europea.
Al contrario, questo repentino cambiamento di scenario va considerato per quello che è: uno spazio di manovra inatteso all’interno del quadro europeo, per impedire che questa guerra finisca come vorrebbe Putin, cioè non solo con la bielorussizzazione dell’Ucraina, ma anche con la finlandizzazione dell’Europa.
Purtroppo bisogna prendere atto che l’unità europea è oggi essenzialmente il prodotto della resistenza militare di Kiev. Non è che Kiev resista perché l’Europa unita ha deciso di sostenerla, ma è l’Europa che si è riscossa dall’apatia nel momento in cui ha scoperto che l’Ucraina resisteva e che la Russia non se l’è ingoiata in un solo boccone.
La durata dell’assedio, la tenuta degli Ucraini, la regia davvero “professionale” che Zelensky ha saputo fare del racconto del conflitto sui social media hanno risvegliato classi dirigenti e opinioni pubbliche, che avevano preso atto dell’annuncio dell’invasione come di una fatalità dall’esito ineluttabile. Le sanzioni economiche serie e l’impegno alla fornitura delle armi sono stati di parecchi giorni successivi all’attacco e costituiscono una conseguenza del fatto che l’Ucraina sta resistendo.
Allo stesso modo, nelle cancellerie europee inizia a farsi strada la consapevolezza che l’avvio del processo di adesione dell’Ucraina all’Ue non è una simbolica provocazione a Putin, ma il segno politicamente più concreto di sostegno alla resistenza ucraina, perché ne descrive l’orizzonte strategico necessario tanto agli ucraini, quanto agli europei. A questa consapevolezza ha dato voce domenica Ursula Van Der Leyen: «Vogliamo l’Ucraina nell’Ue».
Detto in modo sommario, grazie agli ucraini gli europei stanno iniziando a capire che quella guerra, apparentemente lontana e legata alla storia post-sovietica, è a tutti gli effetti una guerra all’Europa, ai singoli stati europei e al sistema di diritti e libertà che l’Unione europea storicamente incarna, al riparo del sempre meno comodo e gratuito ombrello della Nato. Per questa ragione, adottate le sanzioni e finanziato l’acquisto di armi per l’Ucraina, l’avvio del processo per rendere europeo di diritto un Paese che, di fatto, lo è storicamente, ma oramai anche politicamente, è qualcosa di molto di più che un tributo simbolico.
In vari Paesi europei (soprattutto nel cuore degli stati fondatori), questa scelta viene tuttora considerata un azzardo. In Italia, per quanto ciò suoni incredibile, non esiste un solo partito che si sia dichiarato ufficialmente favorevole a questa opzione e ve ne sono molti dichiaratamente scettici e contrari. «Non è il momento» è la posizione di fatto comune a tutti, dai sovranisti di Salvini agli europeisti di Calenda e Bonino. Eppure Draghi sembra essere stato decisamente più disponibile, nei suoi colloqui con Zelensky.
Dietro questa riluttanza c’è lo stesso equivoco che nelle settimane precedenti all’invasione ha portato troppi ad autoconvincersi che la guerra potesse essere scongiurata con un esorcismo; che le armi non avrebbero iniziato a sparare, finché tutti avessero fatto finta di non vederle ammassate ai confini ucraini; che Putin non avrebbe invaso l’Ucraina se una provocazione non gliene avesse dato l’alibi e il pretesto. Ed abbiamo visto, com’è finita.
Pensare che avviare il processo di adesione dell’Ucraina all’Ue, cioè iniziare a definire europea la frontiera ucraina (quello che è), sia una provocazione peggiore delle sanzioni economiche e del sostegno bellico agli ucraini contro la Russia, significa continuare a non volere capire o accettare che Putin non sta reagendo proprio a niente, ma sta agendo in coerenza con un disegno perseguito da anni: la ricostruzione di un impero russo nelle sue frontiere dell’800 e la marginalizzazione politica dell’Europa, per annientare o asservire un mondo che con la sua stessa esistenza, la sua ricchezza, la sua forza attrattiva e il suo soft power rappresenta uno specchio, che rimanda impietosamente l’immagine dell’umiliazione della Russia e del suo storico fallimento nella sfida con la modernità.
Non siamo noi a provocare Putin. A muovere Putin è quello che sta dentro la sua testa e che fa coincidere la salvezza della Russia imperiale con quella dell’umanità cristiana. Dichiarare apertamente europea la guerra all’Ucraina significa dichiarare la piena consapevolezza dei suoi rischi e una vera responsabilità sulle sue conseguenze.