Molti pensano che le atrocità emerse nella città di Bucha dopo il ritiro dell’esercito russo rappresenteranno uno spartiacque. Molti sostengono che dinanzi ai corpi di centinaia di civili inermi fucilati con le mani legate dietro la schiena ci sarà una generale presa di coscienza, e chi finora si è inerpicato per ignobili distinguo, false equivalenze ed empie equidistanze non avrà il coraggio di insistere oltre. Qualcuno pensa addirittura che assisteremo a sincere autocritiche, se non da parte di quel grottesco esercito di scoppiati che ha occupato i palinsesti televisivi, perlomeno da parte di chi li ha invitati e difesi in nome del pluralismo e della libertà di opinione. Personalmente non sono così ottimista.
Certo, adesso almeno dovrebbe essere chiaro a tutti, come ha notato Anne Applebaum, che quando parliamo con leggerezza di quali «concessioni territoriali» l’Ucraina dovrebbe fare alla Russia di Vladimir Putin stiamo parlando di questo: esporre i civili di quelle regioni a fucilazioni, stupri di massa, saccheggi, deportazioni. Si tratta peraltro di cose, in gran parte, già emerse e documentate da tempo, come il tentativo di prendere le città per fame e per sete, costringendo la gente a bere l’acqua dalle pozzanghere e dai canali di scarico (domanda che metto tra parentesi per gli appassionati di false equivalenze: quale esercito occidentale applica simili sistemi?).
Notizie che finora non hanno impedito al dibattito di prendere la piega grottesca che ha preso, almeno qui in Italia, dove “guerrafondai” sono diventati coloro che si schieravano dalla parte degli ucraini e “pacifisti” o “realisti” coloro che li invitavano ad arrendersi all’invasore, sostenendo che le sofferenze dei civili erano colpa di chi insisteva a resistere. Una deriva davvero orwelliana perché, prima ancora di ogni altra considerazione etica o politica, si deve dire che è vero l’esatto contrario: sono stati finora i soldati ucraini – e le armi occidentali – a difendere i civili, comprese donne e bambini, dalla sorte toccata loro nelle città in cui l’esercito russo è riuscito a penetrare. Le immagini di Bucha ne sono solo l’ennesima conferma.
Come mai abbiamo dunque tanta difficoltà a riconoscere questi elementari dati di fatto? Perché definiamo la loro negazione come espressione di una libera opinione, anziché come disinformazione o semplicemente come falsità, menzogna, propaganda?
La mia impressione è che a turbarci davvero non sia il male, nemmeno nella forma radicale delle atrocità compiute a Bucha, ma la possibilità del bene. Quello che ci sconvolge non è la crudeltà degli aggressori, cui siamo purtroppo assuefatti e con cui abbiamo una certa familiarità, ma la resistenza degli aggrediti, tanto più sconvolgente perché messa in atto da persone che fino a ieri facevano una vita identica alla nostra, con lavori come i nostri, in città simili alle nostre, almeno fino al momento in cui i bombardamenti non le hanno rese irriconoscibili.
È questo che ci imbarazza, è di questo che non sappiamo davvero come parlare, nel mondo alla rovescia in cui siamo precipitati, in cui ci si vergogna a chiamare eroi coloro che resistono, mentre non si esita a disquisire con aria saccente delle ragioni strategiche e geostrategiche degli assassini.
Indimenticabile e insuperabile, da questo punto di vista, l’inchiesta del Fatto quotidiano sulla villa al Forte dei Marmi di un uomo che poteva fuggire negli Stati Uniti o in qualunque altra parte del mondo un mese fa, e invece è rimasto a Kiev, pur sapendo di essere l’obiettivo numero uno dei russi. Basta il titolo: «Zelensky, villa al Forte e società nascosta al fisco».
Abbiamo passato anni a domandarci con le facce indignate come l’Europa e il mondo abbiano potuto voltarsi dall’altra parte in circostanze ben più difficili di quelle in cui ci troviamo noi, quando si trattava davvero di mettere in gioco la propria vita, mica la bolletta del gas, e adesso fatichiamo a reggere il confronto con chi la vita la rischia tutti i giorni, e non vediamo l’ora di leggere che in realtà, prima della guerra, parcheggiava l’auto in doppia fila, evadeva le tasse e diceva le parolacce.
Vorrei credere anch’io che dinanzi alle atrocità commesse dall’esercito russo sui civili di Bucha assisteremo a un soprassalto di consapevolezza. Temo invece che più il peso dell’orrore continuerà ad aumentare, più forte si farà la reazione di rifiuto.
Leggo che all’ultima riunione della celebre commissione Dupre il giurista Ugo Mattei ha detto: «Ci sono elementi di continuità tra la gestione della pandemia in Occidente e la guerra della Nato». Sulla stessa linea, Carlo Freccero ha osservato che «Covid e guerra hanno trasformato il dibattito in propaganda» e che «la guerra in Ucraina è come una fiction», mentre Massimo Cacciari ha espresso la convinzione che si tratti in realtà di «una guerra tra imperi», pur invitando tutti, in un soprassalto di lucidità, a «stare attenti ai toni» e a «tenere conto di come si muove l’avversario: col Covid abbiamo fatto fatica a far capire che non fossimo terrapiattisti» (ma pensa un po’). Quanto all’ultimo monologo dell’ospite d’onore di cotanta iniziativa, quel professore idolo dei talk show che si è definito «guerriero intellettuale», addirittura «forgiato nello scontro e nella lotta», è squalificante anche solo parlarne.
È però significativo che il gruppo, nato contro il green pass, sia passato con tanta naturalezza dalla contestazione della dittatura sanitaria in Italia (peraltro nel frattempo autoliquidatasi per decreto) alla denuncia della «guerra della Nato» in Ucraina. È significativo soprattutto che siano loro stessi a rivendicare un nesso e una coerenza tra le due battaglie, che si basano non per niente sulle stesse fonti, cioè sulla stessa paccottiglia, lo stesso ammasso di teorie della cospirazione, bufale e propaganda. Materiale che nelle democrazie occidentali mature si trova confinato perlopiù agli organi semiclandestini dei movimenti di estrema destra, ma che in Italia, per usare un termine molto caro ai nostri populisti, è da tempo «mainstream». Com’è «mainstream» la filosofia che c’è dietro, egemone da molto prima della guerra e della pandemia, almeno dagli anni Novanta.
Mi auguro anch’io che le terribili immagini di Bucha, nonostante tutto, diano una scossa al nostro dibattito pubblico. Ma non so se basterà una scossa a risvegliarci da questo trentennale sonno della ragione.