«Non perdonerò mai Putin di avermi costretto a pensare che “la rivoluzione socialista d’ottobre” sia servita all’autocrazia russa per trasferirsi dal XIX al XXI secolo», twitta tra lo stupefatto e l’amareggiato Claudio Petruccioli, che pure nel Pci fin da anni lontani non fu mai dalla parte del Cremlino, allora sovietico, e che dunque oggi è naturaliter dalla parte giusta. Certo, constatare la continuità sostanziale fra zarismo, bolscevismo e putinismo è qualcosa che anche nella sinistra democratica fa effetto: e ammettere che così come l’Ottobre non aprì una nuova storia (se non, certo, per il mito che diffuse in Occidente), il crollo del Muro non ha portato a Mosca la democrazia può essere per molti una dura prova.
Se fosse vivo il grande scrittore russo Ivan Bunin, premio Nobel 1933, fervente antibolscevico, rivolgerebbe ai putiniani gli stessi strali fiammeggianti destinati dopo la Rivoluzione agli uomini di Lenin: «Quanti sono gli idioti convinti che la Russia sia stata protagonista di un grande “mutamento” verso qualcosa di completamente nuovo, di mai visto prima!“ (I. Bunin, “Giorni maledetti”, Voland, 2021). Siamo anche oggi dinanzi alla conferma della storica immutabilità russa, della impossibilità per essa di diventare una democrazia, almeno a giudicare dal fallimento della rivoluzione liberale del 1905, dal naufragio del kruscevismo prima e del gorbaciovismo poi.
Dopo il 24 febbraio 2022 dovrebbe essere chiaro a tutti che la “irriformabilità” non era del comunismo sovietico ma proprio della Russia. Eppure «i filorussi sono tantissimi», si meraviglia un altro “vecchio” del Pci, Luigi Berlinguer. Il cui illustre cugino Enrico ben 41 anni fa dichiarò esaurita la spinta propulsiva dell’Unione Sovietica – formula un pelino ambigua: si era esaurita ma poteva riprendere, o era morta per sempre? – e tuttavia i filosovietici “di sinistra” ci sono ancora: non se n’erano mai andati. Erano “in sonno” in attesa di un cenno da Mosca. Ora l’hanno avuto.
Furenti con Gorbaciov che aveva ribaltato l’abc di Mosca, storditi da Eltsin che tra una vodka e l’altra pure completò la demolizione, hanno visto in Vladimir Putin se non proprio un “compagno” uno con lo stesso odore di Lubjanka e di KGB, un “figlio del partito” e dunque di quel mito antinazista di Stalingrado che oggi torna in auge nella propaganda del Cremlino, gli stessi occhi gelidi del “capo” che infine vuole restaurare i confini e il prestigio della vecchia cara Urss.
Gianfranco Pagliarulo, il presidente di una post-Anpi ove si fondono vecchi nostalgici e giovani estremisti, già deputato cossuttiano, peraltro persona mite, conosce bene il gioco delle tre carte tipico dei filosovietici: la responsabilità della guerra è della Russia, certamente, però il contesto autorizzava l’invasione, o giù di lì, che è esattamente la stessa logica che guidava il Pci nel 1956 quando giustificava i carri armati sovietici a Budapest perché c’erano presunte manovre reazionarie che coinvolgevano “i preti” del cardinal Mindszenty, tutte balle poi ammesse autocriticamente da esponenti come Pietro Ingrao e Giorgio Napolitano, ma tanti anni dopo.
Armando Cossutta, anch’egli persona di garbo, negli anni Ottanta animò una corrente che ostacolava il revisionismo di Berlinguer e poi guidò Rifondazione comunista dopo la svolta di Achille Occhetto. Sul Fatto, Gad Lerner ha scritto che «Cossutta, da autentico nostalgico dell’Urss additerebbe in Putin quanto di più distante dai suoi discutibili ideali»: e invece secondo noi no, pure “l’Armando” avrebbe anche in questa circostanza fatto sfoggio della classica dialettica truccata dei comunisti filosovietici, quella appunto del suo ex braccio destro Pagliarulo – Putin ha sbagliato ma aveva le sue buone ragioni.
Persino Fausto Bertinotti, che non è mai stato filosovietico, in odio all’egemonia americana è oggi sulla linea della “complessità” che è adiacente a quella dei giustificazionisti, così come pure gran parte della vecchia-nuova redazione del Manifesto, nato 50 anni fa proprio in dissenso con la timidezza revisionista del Pci: una nemesi sorprendente è un po’ triste.
E poi ci sono i filosovietici più stolidi, oggi filo-Putin, come l’editore Sandro Teti – casa editrice ai tempi vicina a Cossutta – che ha detto a Sky che «non è vero che i russi stanno bombardando a tappeto le città», mentre in un’altra intervista ha sostenuto che la Russia di Putin è un Paese democratico, «c’è il settimanale della Politkovskaja (la giornalista dissidente assassinata nel 2006, ndr) che si può trovare, ad esempio, in tutti gli aeroporti».
Sui social poi è pieno di post di ex iscritti al Pci – e non si tratta solo di persone anziane – che difendono il dittatore di Mosca visto come il baluardo al trionfo del “capitalismo degli americani” e la crescente disuguaglianza in Occidente.
In un bellissimo articolo sul Foglio, Siegmund Ginzberg, vecchio giornalista dell’Unità che conosce bene la storia del Pci, ha scritto: «Mi fa un certo senso veder dare per scontato che i “vecchi comunisti” debbano essere per forza filo-sovietici, e di conseguenza, filo-Putin, e ovviamente anti-americani, anti-Nato». Giustamente, ricorda che già dagli anni Sessanta i gruppi dirigenti avevano sostanzialmente archiviato il mito di Mosca: ma non lo dicevano apertamente: «Avevamo paura di perdere il partito», ammise Alfredo Reichlin nella sua autobiografia. Oggi i frutti avvelenati sotto le sembianze di certi Russlandversteher hanno le radici nel filosovietismo “di sinistra” trasformatosi come in una novella di Ovidio in filoputinismo. La vecchia Russia, impasto di Oriente e Occidente, da sempre “paese di risse”, non è cambiata, e a quanto pare nemmeno i suoi fedeli.