Il primo Paese a inserire nella sua costituzione quattro articoli dedicati al riconoscimento dei diritti della natura è stato l’Ecuador, nel 2008. Nel 2017 è avvenuto il riconoscimento dello stato di persona giuridica al fiume sacro ai Maori, il Whanganui, da parte del Parlamento neozelandese. L’anno successivo sia il fiume Gange sia il suo affluente Yamuna sono diventate entità legali viventi, così come il bacino del fiume Atrato è diventato per la Colombia un soggetto di diritto. L’ultimo atto del novero è recentissimo e riguarda Panama il cui Parlamento ha approvato un testo che identifica la natura come bene da tutelare e anche come soggetto dotato del diritto di “esistere, persistere e rigenerare i suoi cicli di vita”.
A oggi nel mondo leggi che sanciscono i diritti della natura esistono in 17 Paesi tra cui il Messico e il Canada, 7 nazioni degli USA e dozzine di città e contee americane.
E tuttavia, stando alle conferme che arrivano dall’Organizzazione mondiale della sanità, il 99 per cento della popolazione mondiale respira aria inquinata e di conseguenza nociva per la salute.
Il problema non è un retaggio esclusivo dei Paesi a basso reddito dove comunque la situazione è comprensibilmente peggiore, dice l’Oms, ma colpisce anche quelli a reddito alto dove il 17 per cento delle città registra livelli di particolato fine oltre i limiti. Se si vuole migliorare la situazione, chiosa drasticamente l’Organizzazione mondiale della sanità, bisogna ridurre l’uso dei combustibili fossili.
Ciò non di meno queste risorse non rinnovabili, che comprendono il carbone, il petrolio e il gas naturale, forniscono circa l’80 per cento dell’energia mondiale. Sono cioè la fonte energetica di elettricità, riscaldamento e mezzi di trasporto, oltre a essere il combustibile impiegato per la manifattura di un’enorme gamma di prodotti che va dall’acciaio alla plastica.
Tuttavia, rispetto alle reali possibilità di cambiare il percorso e il nostro destino sul pianeta, il corso attuale è terribilmente eloquente. Oltre alla drammatica contingenza del periodo storico dobbiamo tenere in conto anche l’esito del sesto Assessment Report dell’IPPC delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico (IPCC Sixth Assessment Report Mitigation of Climate Change) che è stato pubblicato di recente il quale ci conferma che siamo davvero arrivati a un bivio dove le decisioni che prendiamo ora possono garantirci o meno un futuro vivibile.
La soglia fissata dall’accordo di Parigi del 2015, che miravano a un ambizioso contenimento del riscaldamento globale di 1,5 gradi, non è più raggiungibile, lo è invece, o meglio, lo è ancora per poco tempo, quello di 2 gradi. A patto che tutti i Paesi rispettino l’impegno sottoscritto.
Se ciò avvenisse, cioè se tutti ottemperassero agli attuali impegni l’aumento stimato sarebbe di 1,9 – 2 gradi entro la fine del secolo, ma non si possono dare per scontati né il rispetto degli accordi né l’attuazione nel lungo termine delle politiche definite per dare esito agli accordi stessi. E in tal senso le prospettive geopolitiche che si stanno delineando non offrono molti titoli di garanzia.
Giusto per fare un esempio, per quanto il Québec, dopo anni di campagne da parte di gruppi ambientalisti, cittadini e studenti ma per primo al mondo, abbia vietato l’esplorazione e la produzione di petrolio e gas sul proprio territorio adottando un disegno di legge che porrà anche fine al finanziamento pubblico nel settore, il governo centrale canadese va invece nella direzione opposta, avendo da poco approvato un grande progetto petrolifero nell’oceano Atlantico, dove sfrutterà un giacimento profondo più di un chilometro al largo delle coste dell’isola di Terranova.
Nonostante l’esortazione ad agire ora o mai più contenuta nelle conclusioni del report dell’IPCC, non dobbiamo pensare che la battaglia sia essenzialmente persa. Quel che dobbiamo fare è di certo accelerare e intensificare le azioni politiche intraprese e in corso su tutti i fronti, ma dobbiamo anche gestire il più grande elemento di incertezza che è dato dall’azione delle singole persone, le quali hanno facoltà di scegliere se percorrere una strada piuttosto che un’altra.
Il tema oggettivo su cui interrogarsi è dunque, quante saranno le persone disposte a battersi per questa causa?