Anastasya Merkushina ha capito subito che il 2022 sarebbe stato il suo anno fortunato. È successo quando le hanno telefonato per dirle di fare valigie: «Devi partire per Pechino».
Anastasya, quattro medaglie mondiali nel Biathlon, in verità non si era qualificata per l’Olimpiade, ma quando una compagna di squadra si è presa il Covid, il posto è andato a lei. Quel regalo inatteso del destino le era sembrato un bel modo di iniziare l’anno. Con la pancia appiattita sulla neve, Anastasya ha sparato il suo ultimo colpo di carabina nella gara dei Giochi del 18 febbraio. Due giorni dopo era nella sua casa Sumy, il vivace centro nel nord est ucraino, fondato nel 1650 dai cosacchi in fuga dalle persecuzioni polacche. Ascoltava i notiziari tv con preoccupazione, come tutti, ma se le avessero detto che una settimana dopo qualcuno le avrebbe consegnato una carabina per sparare proiettili veri, gli avrebbe dato del pazzo. Neppure nel peggiore degli incubi si sarebbe immaginata sulla linea del fronte a prendere di mira i soldati russi che hanno invaso il suo Paese.
Adesso è lì che si trova Anastasya, concede frugali interviste via Skype, pubblica brevi video su Instagram. Come quello che mostra la sua città devastata dagli attacchi dell’esercito di Putin.
«Quando penso alle mie preoccupazioni di appena qualche settimana fa, mi sento ridicola. Per capire cosa stiamo vivendo, dovreste svegliarvi terrorizzati alle quattro di mattina per correre in un rifugio. Dovreste sentire dentro il dolore che proviamo nell’osservare le immagini bestiali che provengono da Bucha. Si può morire in quella maniera? Perché i russi sono venuti a ucciderci? Non è vero che sono stati ingannati, sanno esattamente quel che fanno. Ho amici sia in Bielorussia che Russia, nessuno mi ha chiesto come stavo. È questa ancora una guerra?»
La guerra genera domande che cadono a terra facendo un rumore assordante. Le risposte si mescolano alla contabilità ridondante di morti, cannoneggiamenti, orrori e macerie. I luoghi comuni vanno in fumo. Le donne ucraine, nell’immaginario popolare, sono quelle che cercano riparo verso il confine, madri che raccattano l’essenziale per spingerlo dentro a miseri trolley assieme alla loro dignità. Poi attraversi il Paese per quanto sia ancora possibile e incontri le donne che hanno rifiutato l’esilio. Come Anastasya.
Si tratta di un esercito animato da un’intraprendenza febbrile. Studentesse, atlete, imprenditrici o semplici impiegate riconvertite in combattenti, addette alla logistica di guerra, infermiere, operatrici umanitarie. Ogni giorno che passa sotto le bombe, il loro compito si fa più essenziale, le loro voci misurano la temperatura.
Rosa aveva un negozio di fiori in centro a Odessa, si era specializzata in matrimoni e celebrazioni per famiglie: «Con le mie creazioni mi piaceva portare gioia tra le persone». Adesso indossa un’uniforme militare, ha imparato a maneggiare un fucile e porta il cibo ai soldati impegnati sul fronte.
Quello che è successo a Bucha e a Borodyanka ha stabilito un muro invalicabile tra “prima” e dopo”. «Abbiamo visto tutti quelle immagini – racconta Rosa – abbiamo parlato con le persone che sono state sul luogo. Siamo certi che non saranno gli ultimi casi del genere. Parliamo tra di noi di quello che è successo, ci facciamo forza, ma soprattutto ora sappiamo bene con chi abbiamo a che fare. Il nostro è un nemico diabolico e senza regole né pietà. Nei primi giorni di guerra prevaleva in noi un senso di rispetto per le convenzioni, parlavamo col nemico per lo scambio di prigionieri, questioni normali in battaglia. Ma dopo Bucha gli ordini sono cambiati. Non faremo prigionieri. Se i soldati russi vorranno avanzare devono sapere che qui troveranno la loro tomba».
Rosa ha lineamenti garbati, un’espressione mite che deflagra contro l’immagine di lei che imbraccia un’arma. Eppure.
«In questo momento sono la responsabile degli approvvigionamenti per le truppe. Cerco di diffondere buon umore, mi sforzo di sorridere molto con i soldati, ci facciamo un sacco di scherzi per tenere alto l’umore. Ma so anche che se le cose dovessero mettersi male sarei chiamata a sparare. E ti assicuro che sono pronta».
In Ucraina Google cancella dalle sue mappe villaggi e cittadine per non consentire ai russi di avere riferimenti geografici, la sfera del virtuale è stata rimpiazzata – non solo per le indicazioni stradali – da quella delle relazioni autentiche, è il gps dell’empatia che funziona sempre in circostanze straordinarie. Le persone che comunicano dal vivo, nei rifugi come per strada, si toccano, si abbracciano. Le strette di mano che soppiantano i “like”. La tecnologia, con le sue chat criptate, è semplice strumento di sopravvivenza. La resistenza è affidata alle relazioni di cui le donne tirano le fila.
Stefania Sahaidak era un’insegnante fino a due mesi fa, aveva in tasca i biglietti per una vacanza in Spagna. Poi su Odessa è caduto il primo missile. Ha un passato da attivista, ha lavorato per il partito di Poroshenko, avversario di Zelensky. Oggi ha preso in mano un piccolo centro commerciale nel cuore di Odessa e lo ha trasformato in un hub per aiuti umanitari: «Zelensky non mi è mai andato a genio, ma il suo comportamento dall’inizio della guerra ha convinto tutti. Siamo pronti a seguirlo, incarna alla perfezione il sentimento del nostro popolo».
Un sentimento che trasuda orgoglio nazionale, un collante che sta tenendo unite persone di estrazione e culture diverse. «Abbiamo un solo obiettivo, sconfiggere l’invasore russo e riprenderci la nostra libertà. Ognuno ha un suo ruolo preciso, per piccolo o grande che sia, nessuno si tira indietro. All’inizio ho pensato a questa operazione in chiave umanitaria. Oggi il nostro lavoro ci permette di rifornire anche le truppe impegnate nei combattimenti. Collaboriamo con organizzazioni di tutta Europa. All’inizio della guerra ci sostenevano persino un paio di ONG gestite da russi».
Stefania fa una pausa, La voce si fa incerta.
«Quello che è successo a Bucha ha cambiato tutto. Sono entrata in questa guerra prima con incredulità, quindi con sgomento. Credo che ci abbiano aiutato i due anni di Covid, aver vissuto nell’emergenza ci ha permesso di adattarci rapidamente alla nuova situazione. A livello personale ho creduto che fosse giusto mantenere buone relazioni con i russi opposti al regime di Putin, gli amici con cui comunicavamo prima del conflitto. Ma ora è diverso. Ho lasciato posto a una rabbia incontrollabile. Abbiamo interrotto ogni rapporto con tutti i russi che ci sostenevano. Quel che succede non è responsabilità di un esercito soltanto, si tratta di colpe di cui si macchia un popolo intero. Posso solo augurarmi che gli ucraini infliggano ai russi le stesse sofferenze che stiamo subendo noi».
Nei pacchi che stanno per partire alla volta di Cherson, il fronte a sud della guerra contro i russi, le ragazze dell’organizzazione di Stefania, fanno scivolare biglietti di incoraggiamento magari con sopra indicato un indirizzo di mail, nel caso un soldato volesse scrivere per distrarsi. Qualcuna lascia cadere anche una preghiera scritta a caratteri cubitali: «Uccideteli per noi».