L’ultima risorsa di chi non ha il coraggio di dare ragione a Putin, ma muore dalla voglia di dare torto a chi lo critica, persino dinanzi alle atrocità che ogni giorno di più vengono documentate, è il più vecchio e abusato degli espedienti retorici dall’invenzione degli asili. Ed è che bisogna sempre dubitare di tutto.
Non per niente, è esattamente a questo che mirano le campagne di disinformazione, da sempre. Non hanno nessun bisogno di costruire menzogne credibili, non lavorano sulla qualità, ma sulla quantità: a forza di ripetere ogni sorta di bufala, mettendo in dubbio anche i dati di fatto più evidenti, ottengono comunque l’effetto desiderato. Anzi, quanto più assurde e persino contraddittorie saranno le diverse versioni diffuse, tanto meglio: perché l’obiettivo dei disinformatori, il più delle volte, non è essere creduti, è far sì che non si creda più a niente e a nessuno. Non puntano tanto a convincerci della loro verità quanto dell’idea che non ci sia nessuna verità.
Disgraziatamente, in Italia come in gran parte dell’occidente, è molto diffusa una certa retorica liceale del pensiero critico che di fatto finisce per facilitare parecchio un simile lavoro. Occorre dunque prendere il toro per le corna, e ripartire dai fondamentali.
Tanto per cominciare, non è affatto vero che si debba dubitare di tutto, perché dubitare di tutto è impossibile. Di cosa dubitare e di cosa no, invece, è una scelta, che ognuno di noi compie ogni giorno, in ogni istante della sua vita.
Se si dubita di tutto, quale che sia la certezza di volta in volta messa in discussione, bisognerà dubitare anche della spiegazione, e poi della spiegazione della spiegazione, e così via. Se si dubita di tutto, è impossibile evitare il regresso all’infinito.
Tra persone adulte e in buona fede, non è una questione di cui valga nemmeno la pena di discutere, almeno dai tempi di Aristotele. Parafrasando il filosofo, infatti, potremmo dire che chi davvero dubitasse di tutto dovrebbe dubitare anche del suo stesso dubbio, prima ancora di formularlo, e di qualunque altra cosa volesse dire, dunque non potrebbe fare altro che tacere, il che lo renderebbe «simile a una pianta». E discutere con una pianta, evidentemente, non ha senso.
È vero che per Cartesio, come si studia al liceo, la filosofia comincia con il dubbio universale, ma già Charles Peirce aveva osservato che questo scetticismo iniziale «è un mero auto-inganno e non un dubbio reale» (mentre in politica, aggiungo io, molto spesso è un inganno e basta, senza auto). E proseguiva: «Nel corso dei suoi studi una persona può, è vero, trovar ragioni per dubitare di ciò in cui inizialmente credeva; ma in questi casi egli dubita perché ha una ragione positiva per farlo, e non sulla base della massima cartesiana. Non pretendiamo di dubitare in filosofia di ciò di cui non dubitiamo nel nostro animo».
Ecco, confesso di aver fatto tutta questa lunga divagazione solo per poter scrivere quest’ultima frase: non dubitiamo in filosofia – o in politica – di ciò di cui non dubitiamo nel nostro animo.
Dire che dobbiamo mettere in dubbio tutto, anche l’evidenza delle stragi di Bucha, perché la prima vittima della guerra è la verità e perché c’è anche una guerra di propaganda, nonostante la presenza di decine di inviati, testimoni, immagini, prove, vuol dire proclamare un’assurda equidistanza tra la verità e la menzogna, tra giornalisti indipendenti che hanno visto con i propri occhi e miserabili propagandisti che diffondono bufale come quella del cadavere semovente o dell’ospedale che sarebbe stato una base militare segreta.
Una variante appena più sofisticata di questo genere di obiezioni è quella di chi dice che non possiamo giudicare perché, sebbene le atrocità che abbiamo sotto gli occhi siano indubitabili, sebbene il fatto che sia stata la Russia a invadere l’Ucraina e non viceversa sia indiscutibile, sebbene insomma tutti i dati essenziali della questione siano chiari e innegabili, tuttavia, questi non sarebbero tutti i termini della questione, ragion per cui il quadro sarebbe non falso, ma incompleto. E per giudicare, ovviamente, bisogna avere tutte le informazioni.
Se dunque quello che sta accadendo oggi è chiaro, c’è sempre però qualcosa che è accaduto ieri, l’anno scorso o nel 2015 che serve a dimostrare che le cose tanto chiare non sono. E quando si sarà replicato che i fatti del 2015 erano una conseguenza dei fatti del 2014, e ci s’illuderà di avere chiarito anche questo, puntualmente si verrà rintuzzati con i fatti del 2008, e poi del 2004, e così via, anche qui, all’infinito.
Diceva un altro filosofo, Ludwig Wittgenstein, che nel tennis non c’è una regola che stabilisca quanto in alto si possa lanciare una palla, semplicemente perché non serve. Dire che non possiamo dare un giudizio di quello che abbiamo sotto gli occhi perché non conosciamo a menadito la storia dei rapporti tra russi e ucraini dall’età della pietra a oggi, evidentemente, è come rifiutarsi di giocare a tennis perché non si sa fino a che altezza si possa lanciare la palla. Sarebbe più onesto ammettere di non volerlo fare.
Ognuno di noi, ogni giorno, volente o nolente, sceglie di cosa dubitare e di cosa no. E lo dimostrano proprio tutte le cose di cui, a ben vedere, non dubitiamo mai.
Lo dimostra, ad esempio, l’enorme quantità di incredibili fregnacce cui tanti dubbiosi intellettuali sono disposti a dar credito, si tratti delle più infondate e mille volte smentite fake news sui vaccini o dell’infame montatura secondo cui le stragi compiute dai russi sarebbero una messinscena e i morti ucraini sarebbero attori.
Lo dimostra il fatto che così numerose e autorevoli personalità, in tutte queste settimane di discussioni sulla guerra e sulla pace, tra tanto riflettere e problematizzare, pur di fronte a molteplici e convergenti indizi, mai siano apparse sfiorate dal dubbio di essere semplicemente degli stronzi.