Dipendenza energeticaLe conseguenze per l’economia italiana in caso di un embargo al gas russo

A risentirne di più sarebbe la produzione industriale, costretta a un rallentamento forzato. Secondo un report del governo l’output della manifattura italiana potrebbe calare del 25%. Calenda propone di diventare autonomi da Mosca in un anno, rafforzando i rapporti con i paesi produttori del Mediterraneo e riaprendo le centrali a carbone

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Non basta il massacro di Bucha per rinunciare al gas russo. Compatti nella condanna, i paesi europei si sono divisi sul contenuto del quinto pacchetto di sanzioni contro Mosca. E anche se è stato annunciato lo stop alle importazioni di carbone, l’embargo sul metano per ora è fuori dal tavolo.

Lo ha ammesso il commissario europeo all’economia Paolo Gentiloni al termine dell’Eurogruppo, pur aprendo a un intervento successivo («Non blocchiamo il gas russo, ma in futuro non è escluso»). A nulla sono valse le proteste della Polonia o lo strappo delle tre repubbliche baltiche, Estonia, Lettonia e Lituania, che dal 1° aprile hanno sigillato i rubinetti in entrata. Attingendo, per compensare, a un mix di sostituti che comprende gli stoccaggi lettoni, il gas norvegese e il gas liquefatto dagli Stati Uniti. «Se possiamo farlo noi, anche il resto d’Europa può farlo» ha incalzato il presidente lituano Gitanas Nausėda. Verissimo, ma non senza qualche livido. 

Secondo un recente studio di Goldman Sachs, lo stop al gas proveniente dalla Russia si tradurrebbe in un rallentamento della crescita dell’Eurozona nel 2022 di oltre due punti percentuali. Con effetti più funesti per Germania e Italia, che pompano più degli altri dai gasdotti russi: l’economia tedesca subirebbe una perdita di prodotto interno lordo di 3,4 punti percentuali, quella italiana di 2,6. Per la Germania, un gruppo di economisti tedeschi ha stimato un costo di 800-1.000 euro a cittadino. A infiammarsi sarebbero anche i prezzi, dopo il record storico di +7,5% toccato a marzo nell’area euro: Oxford Economics stima un aumento dell’inflazione di altri 2,6 punti nel caso di un’interruzione alle importazioni di gas per sei mesi. 

Non un impatto rovinoso, insomma, ma certamente da non trattare con leggerezza. Lo sa bene il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner, che ha chiuso all’ipotesi embargo: «Al momento non è possibile tagliare il gas. Serve un po’ di tempo». A fargli eco è l’Austria, che copre l’80% dei suoi consumi con le forniture da Mosca: «Se una sanzione ti danneggia più dell’altra parte, allora non è la direzione giusta» ha affermato il ministro delle Finanze Magnus Brunner. 

A dormire sonni più tranquilli è invece il presidente francese Emmanuel Macron: la perdita di pil per la Francia resterebbe entro lo 0,15-0,3% secondo le stime del Conseil d’analyse économique. E infatti è stato il presidente francese a spingere per inserire nel nuovo pacchetto anche sanzioni energetiche, a cominciare dall’embargo sul carbone, che infrange il tabù delle fonti fossili senza nuocere ai paesi membri. «Lo stop al carbone risponde a tre esigenze» commenta Carlo Altomonte, professore di economia europea all’Università Bocconi e consigliere economico per il Pnrr, «reagire ai fatti di Bucha, non compromettere la ripresa europea e non danneggiare Macron alle presidenziali», che sul lessico di guerra soffre la concorrenza dell’avversaria Marine Le Pen, «è un segnale politico, l’impatto economico è trascurabile». 

Quanto all’Italia, si lavora ormai ininterrottamente al piano B per sostituire il gas di Mosca, come dimostrano le missioni dell’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio per aumentare le importazioni dall’Algeria, dal Qatar e dall’Azerbaijan. Un piano B su cui non mancano proposte da parte dei leader politici italiani, tra cui Carlo Calenda, che ha avanzato un progetto per azzerare la dipendenza dal gas russo nel giro di un anno (non immediatamente, come sostiene invece Enrico Letta): progetto che include, oltre al rafforzamento dei rapporti con i paesi produttori del Mediterraneo, la riapertura delle centrali a carbone a pieno regime e l’affitto di rigassificatori offshore per il gnl, visto che a oggi l’Italia dispone di soli tre impianti. Peraltro il ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani nei giorni scorsi ha già annunciato l’arrivo di due navi da rigassificazione.  

Arrivati a questo punto, il presidente del Consiglio Mario Draghi non ha incoraggiato un embargo sul gas ma neppure si opporrebbe a una proposta della Commissione europea, pur cosciente del danno che subirebbero le imprese italiane. A risentirne sarebbe soprattutto la produzione industriale, costretta a un rallentamento forzato sia per l’impennata dei prezzi che per l’indisponibilità fisica di gas: un report del governo parla di un calo dell’output della manifattura italiana nell’ordine del 25%. In soldoni, circa una settimana di chiusura al mese.

Questo dopo che il 16% delle imprese ha già ridotto o interrotto la produzione, secondo il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, e un altro 30% lo farà nei prossimi mesi. «L’industria italiana subirebbe un impatto dal blocco alle importazioni di gas» commenta Altomonte, «ma con adeguate politiche di compensazione sarebbe gestibile». Politiche su cui Palazzo Chigi sta già lavorando: una proroga dei sussidi sui carburanti, sostegni per l’acquisto di materie prime, nuovi aiuti per il pagamento delle bollette. 

D’altronde anche senza stop al gas russo, la guerra ha obbligato tutti gli economisti a riscrivere le stime di crescita. Il commissario Gentiloni ha già messo le mani avanti in vista dell’outlook che sarà pubblicato a maggio: niente recessione, ma l’Unione europea non raggiungerà quel 4% indicato nelle ultime previsioni. Molti paesi rischiano però la recessione tecnica nei primi due trimestri. È questa l’ipotesi di Confindustria per l’Italia, che prevede una crescita del pil nel 2022 dell’1,9% invece del 4% atteso. 

Eppure il coro dei leader che invocano la madre di tutte le sanzioni si sta allargando. Con la messa al bando dai mercati finanziari globali, le fonti fossili sono l’unico ossigeno rimasto all’economia russa. Ossigeno che consente a Vladimir Putin di respirare senza grande affanno. Con i prezzi che galoppano, gli idrocarburi da soli potrebbero fruttare a Mosca tanto quanto tutte le esportazioni del 2020, o anche di più: nel 2022 circa cento miliardi il petrolio, duecento miliardi il gas, quaranta il carbone.

Di fronte a questi numeri, e di fronte all’orrore di Bucha, pensare di cavarsela bloccando i porti o rendendo la vita difficile a una manciata di oligarchi sembra sempre meno tollerabile.