Bit-smogServono nuove regole contro l’inquinamento delle criptovalute

Il nodo della questione è come viene prodotta l’energia necessaria a minare bitcoin e le altre valute. Alle soluzioni proposte per ora manca la sostenibilità economica: ecco perché serve una regolamentazione globale

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Le criptovalute, per essere prodotte e scambiate, hanno bisogno di grandi quantità di energia. Ma i consumi non corrispondono necessariamente a inquinamento ed emissioni in atmosfera. Tutto dipende da come quest’energia è prodotta. Se, per esempio, un bitcoin – cioè la criptovaluta considerata la più utilizzata e inquinante di tutte – venisse prodotto in un luogo in cui l’energia viene esclusivamente da impianti eolici, allora il suo contributo all’inquinamento atmosferico sarebbe nullo. 

Per capire davvero quanto inquinino le criptovalute, quindi, la domanda che dobbiamo porci è la seguente: come sono alimentati i sistemi con cui vengono “estratte” e scambiate? Molto dipende da dove avvengono questi processi, e qui arrivano i primi dubbi difficili da sciogliere. Perché non è del tutto trasparente dove, e da chi, queste monete basate sulla crittografia vengono prodotte e fatte circolare.

Va considerato che sempre meno persone, oggi, usano i bitcoin per i loro acquisti digitali. Tanto che lo 0,1% di chi usa questa moneta ne possiede circa un terzo dell’ammontare totale. Dopo un boom iniziale il numero è in discesa. Nonostante le criptovalute siano nate con l’intento di creare un sistema alternativo a quello monetario tradizionale, più trasparente e meno centralizzato, il loro uso non è davvero diffuso. Nei fatti, insomma, le persone comuni continuano a utilizzare i metodi di pagamento classici, mentre crescono le preoccupazioni che a usare massicciamente le criptovalute sia chi ha necessità di riciclare denaro e chi fa investimenti speculativi.

Nonostante siano sempre meno le persone che le usano, le criptovalute consumano più energia che mai. Così tanta da essere pari a tutta quella utilizzata in Egitto, o in Thailandia, ogni anno. Le emissioni, stando a quanto scrivono studiosi ed esperti del settore, sarebbero all’incirca quelle di un paese come la Repubblica Ceca: 114 milioni di tonnellate di CO2 all’anno.

Da questi dati, obiettivamente sconfortanti, sono nate alcune prese di posizione piuttosto nette. Elon Musk, poche settimane dopo aver introdotto la possibilità di pagare le auto Tesla in criptovalute, è tornato sui suoi passi, dichiarando di averci ripensato proprio per via dell’alto impatto ambientale di queste monete. Peter Howson, che ha studiato il fenomeno in termini di sostenibilità e impatto ambientale, scrive che le criptovalute «stanno annullando le vittorie ambientali». Si stima che la diffusione dei veicoli elettrici, per esempio, finora abbia scongiurato l’emissione di circa 50 milioni di tonnellate di CO2. Cioè meno della metà dei 114 milioni emessi dalle criptovalute ogni anno. E il trend è in peggioramento.

Il motivo per cui i bitcoin, nello specifico, consumano così tanta energia è che il loro processo di creazione prevede il lavoro di computer con un grande potere di calcolo. Questi computer consumano tanto, ma c’è un altro motivo, sebbene indiretto, che contribuisce ad aumentare i consumi: i sistemi di raffreddamento di questi computer devono funzionare costantemente.

Anche la validazione di ogni transazione e creazione di nuova valuta dipende da un processo estremamente energivoro. Un meccanismo chiamato “proof of work” (spesso abbreviato con la sigla PoW). La blockchain, cioè il sistema composto da computer e server che registrano ogni transazione mai eseguita, necessita del lavoro all’unisono di moltissime macchine. Questo perché è necessaria una grande potenza di calcolo da parte dei computer coinvolti, e di conseguenza un grosso dispendio di energia elettrica.

In modo che questo processo sia fruttuoso per chi lo svolge, poi, ci sono dei meccanismi di ricompensa. Ai nodi della catena di validazione vengono sottoposti problemi crittografici e chi riesce a risolverli automaticamente diffonde un “avviso” valido per l’intero sistema. Questo avviso serve, appunto, a validare i processi, ma assegna al risolutore anche nuovi bitcoin.

Torniamo per un attimo alla domanda iniziale: dove vengono prodotti i bitcoin? Secondo alcune stime circa due terzi di tutti i bitcoin al mondo sono prodotti in Cina. Una parte consistente nelle province dello Sichuan e dello Yunnan, dove si trovano grandi impianti idroelettrici che creano un surplus di offerta di energia che a sua volta permette di ottenerla a basso prezzo. Nella stagione in cui questi impianti producono di più, quella più umida, addirittura il 50% della produzione di tutti i bitcoin prodotti globalmente avviene qui. Ci sono però anche altre province cinesi in cui la produzione di criptovalute è considerevole, come lo  Xinjiang, dove invece la fonte di energia prevalente è il carbone, cioè la più inquinante di tutte.

Da tempo si parla di possibili soluzioni per mitigare il grande consumo di energia (e le emissioni in atmosfera) di cui sono responsabili le criptovalute. Ma, per il momento, nonostante vari proclami sembrano difficili da attuare. Il già citato Peter Howson lo scorso marzo è giunto alla conclusione che, dopo studi che lo hanno visto a capo di un progetto di ricerca apposito, nessun impegno preso da singole aziende o investitori potrà essere efficace perché, semplicemente, i cambiamenti nel funzionamento della blockchain sono economicamente sconvenienti. Quindi, conclude Howson, la soluzione può essere solamente quella di una regolamentazione globale. 

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