Ritorno alle originiMateria, prima

Dalla cura del selvatico ai cocktail fermentati, passando per la cucina rigenerativa. Come il mondo della ristorazione e della miscelazione stanno valorizzando il concetto. Cercando di non scadere nella mera retorica

Uno dei concetti chiave sulle quali sempre più chef stanno lavorando è quello di materia prima. Tutti sappiamo quanto sia importante nella valutazione complessiva e finale di un piatto la qualità dell’ingrediente. E se fino a una ventina di anni fa si parlava quasi esclusivamente di tecnica, di impiattamento e di creatività agli eccessi, ora l’ordine degli addendi è cambiato. Il centro dell’attenzione si è inizialmente spostato sulla ricerca maniacale del raro e perfetto, della coltivazione esclusiva o di quello che si potrebbe definire terroir per qualsiasi tipologia di ingrediente. In alcuni casi ne sono nate derive talvolta anche un po’ estreme ma resta il fatto che parlare di prodotto, materia prima, produttori, agronomi e allevatori sia il livello corretto (se non l’unico possibile) di fare cucina con un approccio sostenibile. C’è stato un momento nella storia della ristorazione – che ha più o meno coinciso con la nascita di Eataly e con un progressivo slittamento di prospettiva dagli chef alle ricette– nella quale molte osterie e ristoranti d’autore hanno iniziato a raccontare con più attenzione gli ingredienti dei singoli piatti. Per la prima volta sono state indicate provenienze, stagionature, produttori, allevamenti e – anche grazie all’opera di Slow Food – molti ristoratori si sono premurati di indicare alla fine di ogni menu o di fianco alle descrizioni dei singoli piatti le informazioni necessarie. Una caratteristica che oggi ci pare scontata ma sulla quale si è iniziato a riflettere non molto tempo fa e che negli ultimi tempi ha portato a fare della materia prima il cuore della ricerca culinaria di molti cuochi. E all’interno di questo movimento c’è chi Per Antonia Klugmann – chef e patron del ristorante L’Argine a Vencò (UD) –  la cucina non è complicazione tecnica ma valorizzazione dell’ingrediente. Come poter utilizzare una verza, un mazzo di ortica, un taglio di carne lasciandogli la massima libertà di espressione possibile senza prevaricare nelle lavorazioni? È chiaro che la scienza e le nuove strumentazioni possono aiutarci a raggiungere risultati e prestazioni altissime ma occorre fare attenzione a non stravolgere l’ingrediente.

Foto di Matteo Mionetto

E trovare il giusto limite, il confine in cui ha senso operare. «Ho capito che qualunque intervento che si possa considerare minimamente invasivo deve avere una sua giustificazione nel valore economico del piatto, altrimenti, per me non ha senso adottarlo» ha raccontato Antonia Klugmann durante la XXVII edizione di Identità Golose. Allo stesso modo, la ricerca spasmodica per l’ingrediente raro, prezioso e (talvolta) di limitata disponibilità non ha (più) senso. La chef friulana, durante il suo intervento, ha in qualche modo lanciato un appello di attenzione e protezione delle erbe selvatiche. Una categoria di ingredienti da sempre molto cara alla Klugmann, abituata ad attingere direttamente dal suo orto o dal territorio circostante.
«Sono talmente pochi gli angoli di terra che sono rimasti incontaminati dall’azione dell’uomo e dove il selvatico vive spontaneamente e secondo natura, che la sua osservazione e il suo studio possono darci molto. Idee, gusti, aromi che possiamo imparare a utilizzare nelle nostre ricette al pari di tante altre erbe note. Noi cuochi abbiamo una responsabilità in questo senso. Anche la raccolta delle erbe stesse deve diventare sostenibile, prediligendo ciò che cresce di frequente, spontaneamente e in velocità». E se questa apparente “semplificazione” di ingredienti e lavorazioni sembra stia prendendo piede in alcune rinomate cucine d’autore, allo stesso tempo c’è un altro grande fenomeno che ha conquistato gli chef di tutto il mondo. Stiamo parlando della fermentazione. Dapprima sdoganata da un grande come René Rezdepi – fondatore del ristorante NOMA di Copenaghen –  e ad oggi presente a più livelli tanto nella ristorazione quanto nel mondo della miscelazione. Ricky Gaspari, che insieme a sua moglie Ludovica porta avanti il progetto San Brite a Cortina, utilizza la fermentazione – così come le conserve, le marinature, l’affumicatura – all’interno di un approccio che egli stesso ha definito “cucina rigenerativa”. «Ci nutriamo e vi nutriamo di ciò che produciamo» si legge nel loro manifesto. «Non abbiamo mai fatto ricerca di fornitori ma ci siamo resi i migliori fornitori di noi stessi. Il valore della nostro cucina sta nella filiera. Non a caso, produciamo, alleviamo, trasformiamo la materia prima mantenendo standard altissimi».

Il termine rigenerativo spiega la circolarità che al San Brite si è scelto di adottare verso la natura e l’ecosistema in cui si trovano. Giustifica allo stesso tempo gli animali lasciati liberi, un atteggiamento a servizio del territorio e non di sfruttamento, l’accettazione che certi prodotti si modifichino nel tempo, secondo le leggi della natura. Ne è un esempio vivo il formaggio, prodotto ogni anno: il sapore è soggetto all’alimentazione spontanea degli animali che cambia e varia nel tempo. La risposta interpretativa a livello culinario si concretizza in menu fluido, costantemente in evoluzione e senza un reale punto di arrivo. E questo progressivo spostamento di attenzioni verso un uso più cosciente e consapevole degli ingredienti, si ritrovano ad esempio nella filosofia di Carico, il cocktail bar di nuova generazione che porta la firma di Domenico Carella, dove i fermentati sono alla base di numerosi drink e preparazioni della cucina. Anche nella cocktail list del Locale di Firenze, curata da Matteo Di Ienno, si ragiona in quest’ottica. Il menu dei drink si strutturi sull’alternarsi delle stagioni e sui prodotti del momento. «In questo modo non solo riusciamo a lavorare maggiormente in sincronia anche con la cucina, creando pairing food and drink coerenti al 100%, ma soprattutto usiamo determinate materie prime quando sono in stagione, quando costano il giusto e hanno la resa migliore».

Materia prima al centro quindi non solo di piatti e drink ma anche della filosofia che ogni chef e barman adotta nella propria ricerca. Una materia prima che – contestualmente al momento storico – rischia di non ricevere il giusto rispetto e attenzione. L’auspicio è che tutti i validi esempi – dall’osteria di ricerca al ristorante stellato fino ad arrivare ai cocktail bar d’autore –  possano indicare una nuova via anche per il consumatore finale. Perché in fondo, parlare di materia prima è un po’ come parlare dell’origine dell’uomo, nel tentativo di imparare a rispettare e valorizzare il nostro ecosistema e quindi, l’essere umano stesso.

 

 

 

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