“Bugie di guerra, la disinformazione russa dall’Unione Sovietica all’Ucraina” si intitola il libro di Paesi edizioni che esce giovedì e che cerca appunto di ricostruire la continuità di un certo tipo di propaganda.
Il racconto inizia già da una copertina che raffigura la ragazzina simbolo della guerra in Ucraina, immortalata dal padre fotografo il 22 febbraio 2022 – cioè due giorni prima dell’inizio della guerra – con il lecca lecca e il fucile in mano, in attesa dell’invasore russo come fosse una vedetta. «L’autore del manifesto si chiama Oleksii Kyrychenko, ed è il padre della bambina che ha scattato e poi pubblicato sul suo profilo Facebook la foto-simbolo della guerra e dei suoi orrori», spiega l’editore Luciano Tirinnanzi nella premessa del libro. «Perché abbiamo scelto quell’immagine così forte ed evocativa? Non solo per rendere ancora più attuale il contenuto di questo libro, ma anche perché la storia di quella foto resterà a lungo come un caso-scuola della comunicazione visiva e, al tempo stesso, della propaganda politica in tempo di guerra. Che poi è l’oggetto ultimo di questo saggio».
«Mi chiamo Oleksii. Ho una moglie e tre figli. Prima della guerra lavoravo come ingegnere in un’azienda di Kiev. Vivevo nella mia casa in una piccola città vicino a Kiev. La fotografia è il mio hobby. Mi sono diplomato in arte fotografica», ha raccontato il padre. «La tensione nervosa era molto grande nelle ultime settimane prima della guerra. L’Occidente e l’intelligence ci parlavano di una guerra inevitabile, ma per noi era incredibile. Allo stesso tempo, la società occidentale ha dimostrato di essere “preoccupata” ma di non far seguire subito sanzioni contro la Russia. Così ho deciso di fare delle foto che potessero attirare l’attenzione sulla possibile guerra. Desideravo dimostrare come sarebbe potuta apparire l’Ucraina nel prossimo futuro. Come si può vedere, ho scattato questa foto il 22 febbraio 2022, cioè due giorni prima dell’inizio della guerra». La foto della figlia con una caramella e un fucile in un edificio abbandonato. «La pistola è mia, mia figlia non sa sparare. Lei ha 9 anni. Naturalmente, la pistola non è stata caricata durante le riprese».
Racconta Oleksii che lo stesso giorno ha pubblicato la foto su alcuni gruppi Facebook di fotografi stranieri. È stato immediatamente bandito in quelli con amministratori russi, ma anche negli altri gruppi ci sono state dure critiche. «Infine, la foto è rimasta visibile in un solo gruppo. E l’indomani, senza dichiarare guerra, alle 4 del mattino, Putin ci ha attaccato. […]. Alcuni giorni fa, ho caricato questa foto nel gruppo ucraino di Facebook “hobby per la coltivazione di cactus”. E improvvisamente si è diffusa in tutto il mondo ed è diventata un meme. Poi questa foto è stata pubblicata persino da Donald Tusk (grazie, Donald!) nel suo tweet al Parlamento europeo. Ora, l’atteggiamento verso questa foto è completamente diverso, in quanto il mondo ha visto il vero volto dell’invasione russa».
Osserva Tirinnanzi, «ciò che il fotografo intendeva comunicare, l’indignazione che intendeva suscitare, è dunque arrivato in tutta la sua drammaticità a ciascuno di noi. In modo meno edulcorato e certo non in posa, infatti, simili scene si sono poi verificate puntualmente: il popolo ucraino davvero resiste e arma i suoi figli contro l’invasore russo, per non vederli morire». Che è poi il messaggio esattamente contrario a quello di Alessandro Orsini secondo cui «i bambini possono vivere bene anche sotto una dittatura», efficacemente volgarizzato da Crozza nel concetto «e hanno anche meno carie, perché con la fame non abusano di zuccheri».
Il libro è poi diviso in tre parti. “Dezinformacija. La strategia del Cremlino dall’epoca sovietica alla Russia di Putin” è a cura di Luigi Sergio Germani: direttore scientifico dell’Istituto Gino Germani di Scienze Sociali e Studi Strategici, ed esperto di politica interna ed estera russa, con particolare riferimento alle strategie di guerra ibrida e servizi d’intelligence russi. «Sin dall’antichità la disinformazione come strumento di potere costituisce un argomento centrale del pensiero politico e strategico», ricorda. «E ciò vale sia in Oriente che in Occidente. Basti pensare ai trattati di strategia militare dei pensatori dell’antica Cina – e in particolare lo stracitato Sun Tzu, secondo cui “tutta la guerra si basa sull’inganno” – che sottolineano l’importanza di confondere la mente del comandante nemico e demoralizzare le sue truppe».
Ma la Russia in ciò ha raggiunto delle vette. Già in epoca zarista, se si pensa al modo in cui l’allora servizio segreto Ochrana fabbricò il famigerato falso antisemita dei “Protocolli dei Savi di Sion”. Ma in epoca sovietica a tal punto la fama del know-how sovietico in materia crebbe che “Dezinformacija” divenne un termine internazionale. Faceva parte «di una categoria più ampia degli strumenti utilizzati da Mosca – le cosiddette “misure attive” (aktivnye meroprijatija) – per creare divisioni e instabilità all’interno del mondo occidentale, e fiaccare sempre di più la sua volontà di fronteggiare la sfida sovietica a livello militare». Così furono diffuse ad esempio le voci che il virus Hiv/Aids era stato creato dal Pentagono nell’ambito di un progetto di ricerca sulle armi biologiche svolto nella base militare di Fort Detrick, nel Maryland; che la Cia aveva assassinato John F. Kennedy, Martin Luther King, Olaf Palme e Indira Ghandi; che il Pentagono avrebbe prodotto un’arma «etnica» in grado di uccidere solo le persone di colore ed innocua per i bianchi; che bambini sudamericani verrebbero cresciuti e ingrassati per fornire organi umani destinati al mercato americano; che la Cia e i servizi segreti italiani avrebbero appoggiato le Brigate Rosse e le formazioni terroristiche di estrema destra in Italia nell’ambito della «strategia della tensione».
Non era però solo verso l’esterno ma anche verso l’interno: «il controllo dell’informazione consentiva al regime sovietico di sopprimere l’autonomia della società civile, impedendo ai cittadini di costituire delle comunità indipendenti dal Partito-Stato, assicurando così la completa sottomissione della società e degli individui all’apparato di potere». È «un’eredità che la Russia di Vladimir Putin ha ereditato e applica ancora oggi alla lettera», anche perché nell’era della Rete e dei Social vi sono opportunità in passato sconosciute. Gli «hacker patriottici» diventano a loro volta uno strumento essenziale. Sono tutti strumenti di guerra non lineare che il Cremlino ha scatenato fin dall’inizio della crisi ucraina nel 2014. Nella propaganda anti-ucraina sono stati utilizzati tra loro elementi chiaramente in contraddizione: definire il governo di Kyiv «nazista» è ad esempio non omogeneo al definirlo «asservito a lobby gay», dal momento che i nazisti gli omosessuali li mandavano nei lager.
È lo stesso che sì è visto al momento dell’abbattimento del volo MH17 Amsterdam-Kuala Lumpur della Malaysia Airlines da parte di un missile dei separatisti filo-russi del Donbass, quando fonti russe hanno diffuso le tesi sia che il missile fosse stato lanciato dagli ucraini e/o che fosse stato un missile israeliano; sia che fossero stati invece caccia ucraini, o Usa, o Nato; sia che c’era una bomba a bordo. La stessa eterogeneità di tesi che abbiamo visto sui cadaveri di Bucha, di cui le fonti russe hanno sostenuto sia che fossero in realtà attori; sia che fossero stati messi dopo; sia che fossero stati uccisi dagli ucraini. Come spiega Germani, «per i tecnici della disinformazione del regime putiniano, …l’idea della verità è irrilevante. Anzi, un obiettivo della disinformazione russa di oggi è sovvertire il concetto di “verità” e accreditare l’idea che non esiste una versione “vera” degli eventi, allo scopo di paralizzare il processo decisionale del target cui si mira. Quindi, la disinformazione russa oggi mira non tanto a prima parte persuadere il pubblico di destinazione a credere a una tesi precisa, ma piuttosto punta a creare confusione cognitiva, a mettere in dubbio le narrazioni occidentali, a relativizzare e screditare il concetto di “verità” facendo passare l’idea che esistano “molteplici verità” e che tutta l’informazione è manipolata, da qualunque parte essa provenga». Un po’ quello che si è visto sulle polemiche No Vax, infatti pompate a loro volta dai troll putiniani.
“La guerra fredda e l’ingerenza russa in Italia”, la seconda parte, è di Francesco Bigazzi: già direttore dell’Ansa, poi corrispondente del Giorno e di Panorama, è stato collaboratore di numerose riviste scientifiche, settimanali e quotidiani. Dal 2004 al 2009 addetto stampa e cultura presso il consolato generale di San Pietroburgo, è uno dei massimi esperti italiani del dissenso dell’Est europeo. Anche lui ricorda come «L’importanza della dezinformacija cresce enormemente negli anni del terrore staliniano, fino a diventare uno dei settori più importanti dell’attività del Kgb. Nel momento stesso in cui Felix Dzerzhinsky decide di dare vita alla Čeka, ritiene indispensabile creare contemporaneamente un Ufficio disinformazione. Del resto, proprio quando Stalin, nella primavera del 1946, intende riorganizzare il Kgb, ecco che nel nuovo organico viene inserita un’apposita struttura specializzata nel lavoro di disinformazione. In questa nuova Direzione è previsto che agiscano di concerto la sezione “DN” e il Gruppo speciale per missioni particolari presso il ministero della Sicurezza di Stato».
Nel tracciare questa storia, Bigazzi dedica un ampio spazio alle risorse investite nell’editoria. «Non è un caso che una parte molto rivelante dei finanziamenti del Pcus ai partiti “fratelli” abbia finito per essere convogliata nel settore propaganda. Le case editrici “sorelle” sin dagli anni Cinquanta cominciano a ricevere somme di denaro sempre più grandi. L’appetito verrà mangiando. Per soddisfare la sete di denaro della stampa non solo “sorella”, ma anche “amica”, si escogitano nuovi sistemi di finanziamento, sempre più sofisticati. Al punto che i loro corrispondenti stranieri dalla fine degli anni Cinquanta, nel vano tentativo di sviare i sospetti, vengono foraggiati nientemeno che con i soldi fatti versare dalla Croce rossa e dalla Mezzaluna rossa».
Nel ricostruire vicende di rapporti con vari gruppi editoriali italiani, «a dir poco singolare» viene definita «la vicenda del quotidiano Paese Sera che riesce, con metodi oltremodo sbrigativi e al limite del ricatto, a ottenere un ultimo finanziamento alla vigilia del crollo. Come si può leggere in un documento di cui chi scrive è entrato in possesso, il Pcus autorizza il pagamento di 900 milioni di lire alla testata per la seguente motivazione: «Il compagno “N” [il cui nome non viene rivelato perché al momento in cui viene mandato in stampa questo libro si trova sotto inchiesta giudiziaria, nda] è estremamente convincente quando afferma che potrebbero emergere “rivelazioni scandalose a proposito degli organismi, delle proposte e delle persone che impartivano ordini”». Cioè, o pagate, o diciamo che ci avete pagati!
C’è d’altronde un altro documento, del 17 gennaio 1983. «In conformità alla delibera del Cc del Pcus del 22 maggio 1982 è stata prestata un’assistenza finanziaria alle forze sane del Partito comunista italiano (Armando Cossutta). Questo ha permesso loro di acquistare il pacchetto azionario di controllo del quotidiano Paese Sera, di sostituire il direttore del giornale e alcuni corrispondenti esteri. Il passaggio di questo quotidiano, largamente conosciuto in Italia, nelle mani del compagno Armando Cossutta e dei suoi amici schierati su posizioni marxiste-leniniste e in rapporti di amicizia con l’Urss, permetterà al giornale di fornire una corretta interpretazione della politica estera e interna dell’Unione Sovietica e di contribuire alla propaganda delle conquiste del socialismo reale, del movimento comunista internazionale e del movimento operaio italiano, con ampia eco anche in altri Paesi capitalistici. Per poter proseguire la pubblicazione del giornale, gli amici stanno facendo ogni sforzo per raccogliere i mezzi a loro disposizione. Nel contempo il compagno Armando Cossutta chiede che venga fornito da parte nostra un aiuto urgente (telegrammi cifrati Kgb da Roma prot. Spec. 2994 dell’1 dicembre e prot. Spec. 3333 del 26 dicembre 1982). Secondo gli amici un tale aiuto potrebbe essere preteso vendendo loro, con una usuale transazione commerciale in valuta, 600 mila tonnellate di petrolio e 150 mila tonnellate di carburante per motori diesel, ma applicando condizioni di favore – una certa diminuzione dei prezzi (1% circa) e una maggiore rateazione dei pagamenti (3-4 mesi invece del mese solitamente concesso). Sarebbe opportuno soddisfare la richiesta summenzionata degli amici italiani affinché questi possano ottenere dalla transazione commerciale circa 4 milioni di dollari. Boris Ponimariov». Direttore del Dipartimento internazionale del Pcus dal 1955 al 1986.
“Le tecniche moderne: cyber disinformazione e giornalismo collettivo”, cioè la terza parte, è infine di Dario Fertilio: giornalista, scrittore, docente di Teorie e tecniche della comunicazione giornalistica all’Università Statale di Milano, e con Vladimir Bukovskij ideatore di Memento Gulag, giornata della memoria per le vittime dei totalitarismi che si celebra il 7 novembre. Ci ricorda che una novità apportata da Putin nella storia della propaganda e della guerra parallela è consistita nella invenzione di «una vera e propria fabbrica di troll». «Ovvero, nel gergo di Internet, utenti anonimi di una comunità virtuale, che intralcia il normale svolgimento di una discussione inviando messaggi provocatori, irritanti o fuori tema».
«Nota in Occidente come Internet research agency (Ira), la Agenstvo Internet Issledovanij è la principale fabbrica di troll russa. Si sviluppa rapidamente, impiegando già nel 2015 più di mille dipendenti nella sede centrale di San Pietroburgo, quartiere di Olgino, allungando i suoi rami operativi su un’area vasta e difficilmente controllabile (dal momento che molti collaboratori lavorano su pc remoti in differenti località)». «Qualche fuga di notizie e vari studi di contro-intelligence europea e americana permettono di conoscere diversi particolari organizzativi della “fabbrica di troll”: persino gli stipendi accordati alle reclute, che pur aggirandosi su appena 700-800 euro al mese, costituiscono comunque un reddito allettante per un cittadino medio in Russia. Ogni membro dell’agenzia ha il compito di crearsi alcuni account falsi, dai quali diffondere una quantità fissa giornaliera d’informazioni fittizie o inquinate su argomenti sensibili per la politica estera di Mosca».
«Quali? Sostenere la legittimità dell’occupazione della Crimea ucraina; la guerra contro Kiev; influenzare la politica americana (il che avviene per la prima volta in occasione delle elezioni presidenziali che portano all’elezione di Donald Trump)». La supervisione del commando di manipolatori in rete spetterebbe a un amico personale del presidente Putin, Vyacheslav Volodin, già presidente della Duma. «L’efficacia di questa fabbrica della disinformazione risiede essenzialmente nel coordinamento delle attività: una volta individuato il bersaglio, si procede all’invasione di siti, blog e social network, diffondendo notizie allarmanti e manipolate (come l’inesistente esplosione di una fabbrica chimica in Louisiana). Oppure critiche all’opposizione interna russa (segnatamente nei confronti del dissidente Aleksey Navalny). O ancora elogiando l’azione di Vladimir Putin e di Mosca, prima durante la guerra in Siria, al fianco del presidente Bashar al Assad, e poi al momento dell’invasione in Ucraina. «Normalmente i troll utilizzano per comodità i contenuti propagandistici diffusi da agenzie controllate dal Cremlino – come Russia Today o Sputnik News – ma in alcune circostanze confezionano anche prodotti più sofisticati, come nel 2015 il video falso, interpretato da un attore, in cui un soldato americano sparava platealmente contro un Corano».
All’attenzione mondiale è arrivata in particolare l’attività di questi troll in occasione della campana elettorale Usa del 2016, ma non sono mancate operazioni in Italia. Dall’offensiva contro Mattarella, con un hashtag sostenuto da centinaia di profili che ne chiedevano le dimissioni, ai commenti sulla operazione «Dalla Russia Bugie di guerra con amore»: la missione sanitaria mandata nell’Italia in preda alla pandemia all’epoca presentata come operazione umanitaria, di cui alla fine sono saltati fuori pesanti retroscema non solo propagandistici ma addirittura spionistici.