Lo scorso fine settimana è accaduta una cosa interessante in quella sorta di sacrestia comunitaria dell’informazione che sono i social, dove i chierici e i ministranti della libera stampa discutono, bisticciano e (a volte) si menano dopo la messa.
La cosa interessante non è che anche in questo week end, come del resto avviene tutti i giorni, giornalisti e lettori (chi è senza peccato eccetera eccetera) abbiano preso a punzecchiarsi su quanto scritto o taciuto dalle rispettive testate: è interessante, anzi decisamente essenziale, proprio l’oggetto della discussione, rappresentato dal nodo scorsoio del rapporto tra pluralismo e responsabilità, a cui sta finendo letteralmente impiccata la libera informazione in Occidente e con lei quel suo sottovalutato sottoprodotto politico, che è la democrazia.
Ecco la vicenda in breve, come raccontata direttamente dalla testata protagonista della querelle, cioè Limes, in un thread su Twitter.
- La tabella non esprime l’opinione di Limes ma del professor John O. Willerton, politologo dell’Università dell’Arizona e uno dei massimi esperti americani di Russia. 1/3
- È infatti estrapolata fuori contesto da un articolo pubblicato sul numero 11/2021 di Limes (“CCCP, il passato che non passa”) nel quale il professor Willerton scrive: “La tabella fissa undici importanti aspetti della società russa. 2/3
- La colonna di sinistra presenta la mia valutazione, basata su opinioni correnti nella società russa, mentre la colonna di destra fornisce in breve la versione iperbolica che pervade la percezione americana.” 3/3
La tabella in questione era questa, ed esponeva in modo sintetico quale sarebbe la realtà della Russia e quale sarebbero le balle che sulla Russia gli americani amano raccontarsi. Le balle, per fare un esempio, sono che Putin ammazzi oppositori e giornalisti e invada Paesi terzi, che la Crimea sia stata annessa illegalmente e che si possa parlare di dittatura putiniana.
La realtà è che i giornalisti e gli oppositori muoiono, sì, ma «in zone violente» (Anna Politkovskaja fu ritrovata morta nell’ascensore di casa, Boris Nemtsov nei pressi del Cremlino) e «a causa di scandali di corruzione» (i morti di mafia, quando la mafia ufficialmente non esisteva, morivano tutti ammazzati da mariti cornuti); la Russia tende un po’ ad allargarsi, è vero, ma «salvaguarda la sua sfera di influenza in Ucraina e Georgia». Quella della dittatura putiniana e dell’assenza di vere opposizioni (se non in esilio, in galera o al cimitero) poi è la madre di tutte le balle, perché in Russia esiste un «sistema decisionale verticale» ma «elezioni regolari con più candidati».
La difesa di Limes è dunque (traduzione mia dal birignao giornalistichese del thread):
- «Mica siamo noi a dire quelle cose, le ha dette questo tizio, noi le abbiamo solo pubblicate e peraltro questo tizio mica dice le cose che voi dite che lui dice»;
- «Questo tizio è uno studioso autorevole della Russia ed è pure americano: quindi come vi permettete di criticarci, voi che non parlate russo e magari leggete pure gli articoli degli americani con Google Translate, se non ve li traduciamo noi?»;
- «Noi siamo un esempio di testata pluralista, proprio perché pubblichiamo questi servizietti propagandistici, anche se non li condividiamo; siete voi il pericolo per la democrazia, perché volete impedire agli italiani di leggere gli originali contributi di un americano che dice che Putin non è un dittatore e sono gli americani a essere fuori di testa».
L’articolo di Willerton, sfigurato secondo Limes da estrapolazioni fuori contesto, dice esattamente quel che riporta la tabella e lo dice pure peggio. Censura la «caratterizzazione da cartone animato» della realtà russa; irride Navalny («Aleksej 2% secondo il gradimento dei sondaggi russi»), ammette che non c’è dubbio che la Russia «sia intervenuta pesantemente in Ucraina», ma a seguito del «colpo di stato del 2014» e – a conferma della famosa massima per cui, se li torturi abbastanza a lungo, i numeri confesseranno quello che vuoi – spiega che dal 2017 a oggi sono morti più giornalisti statunitensi che russi, per non dire degli indiani e dei messicani e che l’economia della Federazione, giovandosi della cura di Putin, «torna a avvicinarsi a quello della Germania in termini di Pil assoluto».
Chi fa quel particolare mestiere delle armi che è l’informazione (perché ne uccide più la penna ecc. ecc.), se ha un minimo di etica della professione, sa di muoversi a cavallo di una contraddizione permanente. Deve cioè accettare, da una parte, che i fatti e i giudizi non si possono davvero separare, perché qualunque fatto è già di per sé un giudizio, cioè un modo per collegare vari fenomeni secondo relazioni, che si possono dimostrare fondate secondo un metodo condiviso, ma la cui verità non può essere considerata auto-evidente.
Dall’altra parte, pur consapevole di questo, un onesto operatore dell’informazione (usiamo il gergo sindacale, per modestia e umiltà) deve accettare con Orwell che «la libertà è la libertà di dire che due più due fa quattro» e che i nemici della libera stampa sono in primo luogo i nemici di un’etica del discorso razionale e i propalatori di verità che oggi diremmo parallele.
È una contraddizione, questa, risolta nella famosa formula salveminiana, per cui, se «l’imparzialità è un sogno», a maggior ragione «la probità è un dovere».
L’informazione non può essere neutrale – perché si parte sempre a raccontare da un sapere limitato e parziale, che precede la cosa raccontata e che ne determina l’interpretazione – ma non può essere arbitraria e disonesta al punto da destituire di fondamento la realtà, surrogandola con una versione addomesticata e photoshoppata, secondo il disegno fornito direttamente dal sovrano. Putin, o chi per lui.
La discussione sul pluralismo, sulla completezza e sulla responsabilità dell’informazione – cioè su quello che fino a pochi anni fa era considerato l’inestinguibile capitale civile dei sistemi democratici e la garanzia della loro tenuta – è ormai esplosa in Italia (e non solo in Italia) in una direzione esattamente contraria a quella della salveminiana probità.
Il pluralismo è l’estensione ai bari di un uguale titolo di seduta al tavolo delle comparsate e al desco dei gettoni tv. La completezza dell’informazione è la par condicio delle cazzate e l’alibi del clickbaiting universale. Neppure la più piccola scemenza, se genera dibattito, indignazione e sconcerto – cioè, pubblicitariamente, numeri – deve essere risparmiata al lettore e radio-telespettatore.
Il diritto al dissenso è il riconoscimento di una speciale immunità giornalistica per gli agenti del caos, così oggi il dossieraggio e il depistaggio è diventato un’impresa nobile, da liberi pensatori. La responsabilità delle testate è di mettere a disposizione i propri inchiostri per rendere la notte nera dell’informazione ancora più nera, di modo che tutte le vacche, quelle putiniane e quelle antiputiniane, siano indistinguibili ed equivalenti. Tutte innocenti, tutte colpevoli, tutte uguali.
Così il dubbio, il vecchio vaccino del dubbio contro il fanatismo, diventa la pozione magica del correttismo negazionista: infatti, ci spiegano i cerimonieri della dubbiosità retequattrista e lasettista, abbiamo il dovere di dubitare anche delle vittime ucraine, fino a che non dimostreranno di non essersi aggredite, bombardate e ammazzate da sole.
La democrazia in Italia e in Occidente rischia di morire proprio di questa informazione “pluralistica”, di cui con sussiego scientifico Limes rivendica il merito e a cui pure chi male non si è condotto dall’inizio della guerra di Putin all’Ucraina rende uno scappellamento obbligato.
Eppure Limes e il suo direttore Lucio Caracciolo non sono nuovi a operazioni di volontario e involontario fiancheggiamento filo-russo e anti-ucraino, con lezioni impartite ex cathedra, dall’alto di un’autorevolezza riconosciuta a prescindere.
Sui social, nei giorni della discussione sull’articolo dell’autorevole filorusso americano, di cui abbiamo parlato prima, è uscita anche una perla del numero di Limes dell’aprile 2014, due mesi dopo, si badi bene, l’invasione da parte della Russia dell’Ucraina e l’accaparramento della Crimea: si tratta di un pezzo contro la violenza sciovinista ucraina di una sorta di lupo grigio in salsa russa, Egor Prosvirnin – anche lui, ironia della sorte, morto “accidentalmente” lo scorso anno cadendo da una finestra – che accusava Putin di essere troppo compromissorio e che scriveva papale papale: «Putin è spesso paragonato a Hitler. Si ripete spesso l’orribile parola Anschluss… Ma quale Anschluss! Qui si tratta di una vera e propria guerra come quella per l’unificazione italiana! E Putin non si comporta come il diabolico Führer, che aveva l’idea folle di creare un regno mondiale, ma come Vittorio Emanuele II, che riunì un popolo diviso in vari Stati in un’unica nazione».
Nello stesso numero del 2014, campeggiava anche un lungo estratto dell’intervento, con cui Putin stesso giustificava la secessione della Repubblica di Crimea dall’Ucraina e la sua annessione alla Federazione Russa e un altro intervento per salutare con favore la fine degli accordi di Helsinki sull’inviolabilità delle frontiere e sull’integrità territoriale degli stati.
Più recenti sono state le scivolate del direttore di Limes Caracciolo sull’invasione che non ci sarebbe mai stata e a cui potevano credere solo i gonzi ingannati dalla propaganda americana e la derubricazione, di cui ha scritto ieri Francesco Cundari, della resistenza ucraina e degli ucraini stessi a mero mezzo della guerra tra Usa e Russia. Dei pupazzi nelle mani di altri, non dei protagonisti di una vera epopea civile, prima che militare, che ha stupito sia gli aggressori, che credevano a una guerra lampo, sia gli alleati, che avevano subito proposto a Zelensky di rifugiarsi all’estero.
Allora la domanda è: perché quegli stessi nomi della politica e dell’informazione democratica, che attaccano testate e reti televisive per le tribune propagandistiche che offrono settimanalmente al professor Alessandro Orsini, pensano che sia oltraggioso criticare Limes e Caracciolo che offrono pagine e penna a contributi altrettanto ignominiosi?
Ognuno risponda come vuole, ma è una domanda che chiama evidentemente in causa il funzionamento della parrocchietta dell’informazione progressista e la sua idea degli alleati e dei nemici dell’Italia.