Siamo sempre più attenti alla qualità del cibo che portiamo in tavola e consapevoli del rischio connesso alle sue possibili contaminazioni. Per questo il concetto di filiera controllata e certificata non è più appannaggio solo degli addetti ai lavori ma riguarda tutti noi consumatori che al supermercato ci dilunghiamo nella lettura delle etichette e, sempre più spesso, ci rivolgiamo ai piccoli produttori locali o ai negozi “bio” alla ricerca di cibo non solo fresco, sostenibile e il più possibile a km zero ma anche nutrizionalmente valido e sicuro per la salute.
Il made in Italy è (spesso) una garanzia
In generale il cibo italiano si colloca ai primi posti in Europa per quanto riguarda il rispetto dei parametri di sicurezza previsti dai regolamenti comunitari. Nel nostro Paese infatti esistono norme stringenti a tutela della sicurezza dei consumatori che coinvolgono tanto le istituzioni locali quanto i produttori stessi. Se infatti alle Agenzie di Tutela della Salute (Ats) spetta compiere periodicamente analisi a campione sui prodotti messi in commercio nel territorio di competenza, le aziende alimentari sono sono tenute a rispettare un rigido autocontrollo e a verificare con frequenza il rispetto degli standard fissati per legge per quanto riguarda carica batterica e presenza di sostanze potenzialmente dannose. Infine ci sono gli enti di farmacosorveglianza, che hanno il compito non solo di rilevare eventuali eccessi di molecole nocive presenti nel cibo, ma anche di compiere un’attenta valutazione degli effetti negative che alcuni di esse, pur restando entro livelli considerati sicuri, possono avere sulla salute umana a lungo termine. Per questo, di per sé, la scelta del Made in Italy dovrebbe rassicurarci sul fatto di portare in tavola del cibo davvero controllato e sano.
La sicurezza fuori dal mondo “bio”
Se la diffidenza verso la frutta e la verdura non bio – così come quella per la carne e il pesce provenienti da allevamenti e itticoltura intensivi è ormai un sentimento consolidato – oggi anche altri prodotti di origine animale sono oggetto di attenzione, a causa del potenziale rischio per la salute rappresentato dalla permanenza al loro interno di residui di farmaci veterinari. Utilizzati in ambito zootecnico per trattamenti profilattici di gruppo con lo scopo di proteggere gli animali, questi agenti bioattivi possono infatti permanere nelle loro carni, ma anche trasferirsi a derivati come latte, formaggi, uova e miele, contribuendo direttamente o indirettamente a peggiorare la salute umana a breve o a lungo termine, per esempio contribuendo al disequilibrio del microbioma e al fenomeno dell’antibioticoresistenza.
Dal microscopio, allo spettrometro di massa
Nel 2020 il latte della Gdo è finito sotto accusa dopo che una ricerca condotta dall’Università Federico II di Napoli e dall’Università di Valencia ha rivelato la presenza, nel 49% delle confezioni di latte vaccino in vendita sugli scaffali dei supermercati, di residui di sostanze farmacologicamente attive ad azione antimicrobica e antinfiammatoria comunemente utilizzate negli allevamenti bovini (amoxicillina, desametasone, meloxicam). Sebbene i livelli di concentrazione rilavati fossero compresi tra 0.007 e 4.53 ng/ml, cioè entro i limiti di legge stabiliti dalla normativa comunitaria (Lmr), la scoperta ha spinto gli esperti a interrogarsi sui possibili effetti che alcune sostanze, anche a dosaggi molto bassi, potrebbero avere sulla salute umana di qui a diversi anni. Per questo, poco più di un anno fa, Ats Brescia e Istituto Zooprofilattico di Lombardia ed Emilia-Romagna – con la collaborazione di imprese locali, associazioni di categoria e veterinari aziendali – hanno avviato un progetto pilota basato sul cosiddetto “Metodo multiclasse in Lc-Hrms”, un’innovativa tecnica di analisi per la ricerca di molecole contaminanti presenti, anche in quantità infinitesimali (fino a 100-1000 volte più bassi rispetto ai limiti di sicurezza previsti per legge), negli alimenti di origine animale.
Latte&Co: stessa qualità, diverso approccio
La prima applicazione del nuovo metodo di analisi è avvenuta proprio sul latte, in particolare su quello prodotto negli stabilimenti della provincia di Brescia. Utilizzando una combinazione di cromatografia liquida e spettrometria di massa ad alta risoluzione, è stato possibile ricercare contemporaneamente l’eventuale presenza di più di 60 molecole, tra cui diversi antibiotici (beta-lattamici, amfenicoli, chinolonici, macrolidi, pleuromutiline, penicilline, cefalosporine, sulfamidici, tetracicline, rifamicine). I risultati hanno confermato l’alta qualità e la sicurezza del latte prodotto in questo territorio, dove i produttori stessi e i caseifici mettono in atto controlli ogni 15 giorni e l’intera filiera è attentamente monitorata in tutte le fasi, ma soprattutto hanno aperto nuove prospettive per quanto riguarda la sicurezza anche di carne, carne, uova e miele.
Ripensare i parametri della sicurezza oltre il “qui e ora”
L’idea alla base della nuova tecnologia è quella di spostare il focus dal rispetto dei parametri formali sulla base dei quali un alimento viene considerato “sicuro”, non limitandosi più a valutare gli effetti di alcune molecole contaminanti sulla salute del consumatore attuale, bensì spingendosi a monitorare gli effetti di un’esposizione contenuta ma continuativa nel corso del tempo. In sostanza, oltre a poter testare la presenza di decine o centinaia di composti con una sola analisi, questo metodo permetterà anche di rielaborare a posteriori i dati acquisiti sul campione grazie alla gestione informatizzata. Così in futuro sarà possibile collegare eventuali danni alla salute del consumatore con la presenza di molecole trascurate o considerate innocue all’epoca del primo test.
Un investimento che… vale la candela
L’unico “svantaggio” del nuovo metodo riguarda i costi elevati delle apparecchiature necessarie a compiere le analisi sui campioni, che arrivano a costare centinaia di migliaia di euro (400.000 in media). Eppure i laboratori pubblici di controllo si stanno già attrezzando compiendo investimenti importanti in innovazione tecnologica, e questo dimostra l’attenzione del nostro Paese per la sicurezza dei suoi consumatori e di quanti, all’estero, hanno capito il valore aggiunto dei prodotti Made in Italy, indipendentemente dal fatto di essere bio, non bio, veg o adatti a una dieta onnivora.