È stata necessaria la crisi energetica seguita all’invasione dell’Ucraina a rivelare all’opinione pubblica il vero e proprio “stallo” delle autorizzazioni degli impianti eolici, fotovoltaici e idroelettrici, cioè degli impianti che producono energia elettrica senza far uso di risorse fossili, finite e inquinanti (come il carbone, il gas o il petrolio) ma utilizzando fonti rinnovabili come il vento, il sole e i salti d’acqua.
I dati sono sconfortanti: occorrono anni per conseguire autorizzazioni che la legge imporrebbe di rilasciare (o negare) entro sei mesi e la stragrande maggioranza dei progetti non viene esaminata e resta in attesa di valutazione di impatto ambientale a tempo indeterminato.
Semplificazione e accelerazione delle procedure vengono invocate, come se fossero la cura da cavallo che fino ad ora è mancata; manca tuttavia un’analisi approfondita delle cause dei ritardi autorizzativi, che del resto è la sola che può aiutare a individuare le soluzioni autenticamente efficaci.
Come dimostra il recente studio R.E.GIONS 2030 (elaborato da Elemens e Public Affairs Advisor), la mortalità dei progetti è sostanzialmente ascrivibile alla ostilità delle Regioni e ai pareri negativi delle Sovrintendenze, articolazioni territoriali del ministero della Cultura. Tuttavia l’attuale assetto dei poteri attribuisce la responsabilità delle procedure proprio alle Regioni e riconosce un sostanziale potere di veto proprio alle Sovrintendenze.
Il problema non sono dunque i termini (già brevissimi e comunque sempre disattesi) né il numero di permessi da conseguire (ormai confluiti tutti nella cosiddetta “conferenza di servizi”); le procedure oggi sono ormai abbastanza snelle e collaudate.
Gli ostacoli che oggi si frappongono alle rinnovabili sono principalmente due. Innanzitutto aver a suo tempo (era il 2003) assegnato alle Regioni il compito di autorizzare gli impianti e di conseguire gli obiettivi di burden sharing fissati dallo Stato, senza che alcuna sanzione consegua al mancato conseguimento di quegli obiettivi: è sbagliato che le Regioni non rispondano della mancata autorizzazione (e spesso del sabotaggio, con discipline ostative) di impianti sul proprio territorio.
Secondariamente aver conservato – anche dopo l’istituzione della conferenza di servizi “paritaria” – un sostanziale potere di veto alle Sovrintendenze, che non solo operano un contesto territoriale iper vincolato, ma ritengono comunque le rinnovabili sempre detrattrici di qualunque paesaggio.
Lo sblocco delle rinnovabili non si avrà se non si affrontano di petto questi due nodi, perché qualunque semplificazione continuerà ad essere elusa e boicottata.
Diventa allora indispensabile attivare il potere sostitutivo dello Stato in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi di burden sharing da parte delle Regioni, assegnando al Ministero della Transizione ecologica il potere di autorizzare direttamente gli impianti, e di sanzionare le Regioni inadempienti con decurtazioni delle risorse finanziarie loro spettanti.
E diventa altrettanto indispensabile far sedere i Sovrintendenti al tavolo delle conferenze di servizi allo stesso livello di tutte le altre Amministrazioni, e spogliarli di un potere di veto e di un ruolo di primus inter pares risalente a un secolo fa che non ha più ragion d’essere.
Subito dopo, senza fretta ma con urgenza, occorre ripensare al rapporto tra Stato e Regioni e chiedersi se questo assetto di competenze sia il più adeguato ad apprezzare e tutelare l’interesse alla sicurezza nazionale delle fonti di approvvigionamento energetico, in chiave strategica e geopolitica, e risulterà così evidente la necessità di porre mano al titolo V e all’art. 117 della Costituzione per restituire allo Stato la competenza esclusiva in materia energetica. L’attuale riparto concorrente tra Stato e Regioni non solo non ha ben funzionato ma non sembra proprio adatto per affrontare i duri tempi che ci attendono.