«Si è sempre detto»Il mistero lessicale per cui diciamo succube invece di succubo

Perché siamo passati da una forma etimologicamente corretta a una priva di fondamento logico? La colpa è del francese che si è messo di mezzo tra l’etimo latino succubus e la forma italiana. Magari potremo pure accettarlo, a patto che, per coerenza, fossimo disposti a sostituire incubo con incube

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«Succubò succubì succubà succubè». Con tanto di accento sull’ultima, che ovviamente non c’entra nulla. Qualcuno lo ricorderà, è il mantra di Totò (di cui nei giorni scorsi ricorreva il 55° anniversario della scomparsa) in Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi: ripetuto, per imprimerselo bene in testa, dopo una discussione con la figlia – «Ragazzina! Cosa vorresti insinuare? Che forse sono succube di tua madre?», al che lei lo corregge: «Succubo si dice», e glielo dimostra vocabolario alla mano.

Il film è stato girato da Mario Mattoli nel 1960; oggi i dizionari sono più permissivi e hanno sdoganato la forma erroneamente accreditata dall’attore nei panni del “cavalier Antonio Cocozza della premiata pasticceria omonima”, diffusa allora non meno che ai giorni nostri («Ma non mi far ridere!», ribatteva Totò, prima di convincersi di fronte all’evidenza. «Si è sempre detto succube, tutti dicono succube, io da bambino dicevo succube…»). Ma sarà opportuna tanta indulgenza lessicale? È sufficiente il richiamo al “si dice”, “tutti dicono”, “si è sempre detto”?

D’accordo, le lingue si evolvono, le parole si modificano, le pronunce si alterano. Ma perché passare da una forma etimologicamente corretta a una priva di fondamento logico? Per quali vie accidentate ci si è arrivati? Seguire il percorso di questa deformazione è l’occasione di alcune scoperte non solo linguistiche.

Alla base di tutto è il latino succubus (dal verbo succumbo, giaccio sotto), opposto a incubus (da incumbo, giaccio sopra). Nella mentalità degli antichi al primo termine corrispondeva la donna, al secondo l’uomo (per i greci ephiáltes, alla lettera “colui che salta sopra”). Ma nella perversione della sua attitudine posturale l’incubus conosceva altresì una personificazione (da aggettivo diventando così sostantivo) nella figura – destinata a lunga carriera – di un demone che premendo sul petto del dormiente (quale si vede per esempio in una celebre tela di Füssli conservata al Detroit Institute of Arts, nonché in molte illustrazioni dei codici medievali) gli provoca una sensazione di soffocamento e di terrore. Come spiega il Malleus maleficarum, nell’antica Roma e poi nel Medioevo cristiano succubus era il demone che assumeva sembianze femminili per sedurre un uomo (segnatamente un monaco) e, giacendogli sotto, carpirgli il seme con il quale poi, giacendole sopra in sembianze maschili di incubus, fecondare una donna – al fine probabilmente di generare una creatura manovrabile da Satana. Il latino succubus dà al plurale succubi, e al femminile, rispettivamente, succuba e succubae. A rigor di etimologia (e di grammatica), succube, in italiano, può soltanto essere un plurale femminile. Tanto più che alla desinenza –e, negli aggettivi italiani al maschile singolare, corrisponde nei casi nominativi latini la desinenza –is e non la –us della seconda declinazione, che diventa invariabilmente –o

Senonché tra l’etimo latino e la forma italiana che ne deriva si è messa di mezzo un’altra lingua, perché è dalla mediazione del francese succube (pronuncia sycyb) che viene il nostro succube: e magari potremmo pure accettarlo, a patto che, per coerenza, fossimo disposti a sostituire incubo con incube. Che infatti è registrato (come “non comune”) dal vocabolario Treccani, quale “rifacimento di incubo, secondo succube”, detto “di persona che esercita un’energica azione suggestiva su un’altra (contrapposto a succubo o succube)”. 

E sia, in questa accezione del tutto particolare, per distinguerla da incubo, la forma “non comune” può avere un suo perché. Ma provate a dire “Stanotte ho fatto un incube”: come minimo vi riterrebbero ancora sotto l’effetto del medesimo. O dell’ancipite diavoletto succubus/incubus che carpisce la logica linguistica per generare lessemi storpiati.