Che cos’è il potere? Me lo sono chiesto quasi a ogni riga delle trecento e spicci pagine di Anna – The Biography, la biografia di Anna Wintour scritta da Amy Odell e appena pubblicata da Allen&Unwin.
Me lo sono chiesto quando Donald Trump compra a un’asta un vestito di Versace che a sua moglie neppure entra, ma sono trentamila dollari ben investiti per compiacere l’organizzatrice dell’asta, cioè Anna Wintour. E quando Ivanka invece rifiuta un’offerta di lavoro a Vogue, sebbene caldeggiata dal padre, perché lei da grande vuole fare la palazzinara, mica occuparsi di moda: il potere è settoriale?
Me lo sono chiesto quando la biografa ricostruisce con orrore la mancanza di empatia di Anna, di quell’empatia che è di grandissima lunga il concetto più abusato e fesso di questi nostri tempi (sarebbe retorico domandarsi perché molti ostentino fastidio per «resilienza» e quasi nessuno per «empatia»): il potere è quello che riesci a esercitare contro lo spirito del tempo? O quello che hai solidificato prima che lo spirito del tempo arrivasse al proprio picco d’imbecillità?
Me lo sono chiesto quando Odell rievoca un autunno d’inizio secolo, una dipendente che non è in ufficio perché è Yom Kippur, e Wintour che spazientita sbuffa: ha finito d’essere ebrea? Mi sono chiesta se la misura del potere sia la libertà di fare una battuta del genere senza dover nuotare in rigagnoli di pavloviana bava che t’accusano d’antisemitismo, o se c’entrino solo i mezzi tecnologici: una battuta riferita è diversa da una battuta filmata, in termini di linciaggio reputazionale, e vent’anni fa i telefoni non avevano le telecamere.
Me lo sono chiesto quando Odell, pregna di spirito del tempo, dice che non solo il 12 settembre 2001 Anna W si presenta in ufficio perché lei lavora sempre, ma anche che le sue redattrici e assistenti erano troppo terrorizzate per dirle che avevano paura, e quindi sono tornate a lavorare anche loro; al massimo, come tutela del proprio benessere psichico, hanno indossato scarpe senza tacchi, in caso ci fosse un altro attentato e dovessero fuggire dal palazzo.
È questa cosa qui, il potere: che nell’epoca della lagna perpetua i tuoi sottoposti ti rispettano abbastanza da contenere le loro endemiche lagne? O è Bill Clinton che chiama dall’Air Force One la moglie del tuo amante per dirle «poverina» quando il loro divorzio viene annunciato perché quel che Anna vuole Anna si piglia?
Si misura nel numero di persone troppo terrorizzate per accettare di parlare di te? In un articolo su AirMail di cui forse mi sono persa qualche sottotesto, Alexandra Shulman, già direttrice dell’edizione inglese di Vogue, rimprovera la biografa autrice di questo volume perché tra le testimonianze quasi non compaiono stilisti: possibile non le sia venuto in mente di chiamare Donatella Versace? Probabilmente Shulman sa qualcosa che io non so, e solo per questo l’obiezione mi pare così fessa: sarà Donatella Versace (e molti suoi colleghi) a essersi rifiutata di rilasciare dichiarazioni, no?
A me, che ne so meno di Shulman, la biografia pare piena di dettagli succulenti: da quella volta che, a una cena, Anna mise Henry Kissinger a sedere di fianco a una p.r. e organizzatrice di feste soprannominata «madre Teresa col perizoma di lustrini»; a quella volta in cui una delle sue ex assistenti pubblica Il diavolo veste Prada e Anna commenta «proprio non riesco a ricordarmi chi fosse questa ragazza»; a quella volta che lei non pubblicava da anni vestiti di Alaïa, e lui disse qualcosa tipo: ma l’avete vista come si veste, ma meno male che non le piaccio; a quella volta che Hillary pensò fosse meglio non fare la copertina di Vogue, Anna s’impermalì e scrisse che neanche in Arabia Saudita le donne sono così spaventate dalla frivolezza, mise Barack Obama sulla copertina di Men’s Vogue, e sappiamo come finirono quelle primarie.
Odell è meglio di Lauren Weisberger (l’autrice del Diavolo veste Prada – un libro così bruttino che è un miracolo ne sia uscito un film strepitoso – la cui carriera in Condé Nast viene liquidata con «non era certo una grande scrittrice, poverina»), ma è pur sempre una donna di questo secolo qui, il secolo della fine delle gerarchie.
E quindi, quando racconta dell’avvicendamento dei responsabili editoriali di Vogue, riferisce episodi come la volta che uno ha detto a una redattrice che avrebbe dovuto mettere più spesso la minigonna, e la volta in cui lo stesso, tentando di far baciare pubblicamente due ragazze, ha spinto la testa di una contro quella dell’altra, spaccandole il naso, come fossero della stessa gravità. Probabilmente ha ragione lei: scrive per il pubblico per cui un fischio per strada e uno stupro sono la stessa cosa, o comunque uno prodromo dell’altro. Una generazione alla quale non abbiamo insegnato a ridere di chi diceva che dallo spinello all’eroina era un attimo.
La risposta a «Cos’è il potere» forse è già a pagina uno, quando Odell descrive una mattinata tipica di Anna Wintour, confermando una leggenda che tutti ci ripetiamo ammirati da sempre: la ragione per cui Anna va via presto dalle cene è che si sveglia alle cinque e mezza, e la ragione per cui si sveglia alle cinque e mezza è che gioca a tennis e poi si fa fare la messinpiega, prima di cominciare a lavorare alle otto.
Ci sono quelle che ti parlano di empatia, salute mentale, pressione bassa, e bisogno di prendersela comoda al mattino. E poi c’è il potere, che è innanzitutto tigna, disciplina, dedizione, sacrificio, capelli che non te li lavi sotto la doccia, e completini blu di Prada da infilarsi per esercitarsi nel rovescio a due mani prima che sorga il sole e che ci sia da andare a governare il mondo della moda.