Come avevamo previsto qui, il sindacato dei magistrati ha deciso di scioperare con una decisione assunta due giorni fa con un voto massiccio (1081 contro 169 contrari e13 astenuti) dell’assemblea dell’Associazione Nazionale Magistrati.
Lo ha fatto nel giorno in cui da Londra è trapelata la notizia della prossima formale dichiarazione di guerra totale di Putin all’Ucraina, mentre la TV russa nei suoi talk allestisce promettenti dibattiti sull’uso e gli effetti delle atomiche.
Lo ha fatto mentre di fronte al Paese si profila una dura crisi economica e l’attacco più violento alle istituzioni democratiche degli ultimi anni.
Tutto ciò non sembra minimamente incidere sul modo di pensare della classe dirigente delle toghe che pure dovrebbe aver chiaro che cosa stia rischiando lo Stato di diritto di cui loro sono espressione e di cui dovrebbero essere gelosi custodi.
È probabile che la magistratura, dopo anni di predominio anche politico indiscusso, sia portata a pensare, parafrasando Napoleone, che solo ciò che va bene a se stessa va bene anche allo Stato: certo non si rende conto che nel momento più grave di crisi delle istituzioni democratiche (come ha loro ricordato il presidente delle camere penali Giandomenico Caiazza) altra dovrebbe essere la condotta di chi di quelle istituzioni fa parte a pieno titolo.
Un sentimento diffuso si è colto negli interventi dei vari rappresentanti delle correnti: una sorta di offesa incredulità.
I rappresentanti della politica, con la sola eccezione della grillina Giulia Sarti, presidente della Commissione giustizia, senza distinzione di schieramenti, da Giulia Bongiorno a Enrico Costa ad Anna Rossomando di quel Pd da sempre vicino alle ragioni delle toghe hanno ribadito che la riforma, piaccia o non piaccia non verrà toccata nel suo nucleo essenziale.
Il punto è che per l’Anm il cuore della riforma nasconderebbe l’intenzione della politica di prendere il controllo sulla magistratura tramite l’uso dell’iniziativa disciplinare e il potere del ministro di interloquire sui programmi organizzativi disposti dai capi delle varie procure italiane.
Il vero profilo dolente, tuttavia, sono le cosiddette “pagelle” nelle quali ai fini della progressione delle carriere si dovrebbe tener conto degli “esiti degli affari di giustizia” trattati dai magistrati tramite la valutazione della media di riforma dei provvedimenti cautelari e decisionali da loro adottati.
Come abbiamo spiegato in un altro articolo una simile iniziativa non è una novità: fu proposta un quarto di secolo fa dal ministro Giovanni Maria Flick, come Marta Cartabia non è sospettabile di pregiudizi verso le ragioni della magistratura. La bocciatura di quella proposta è oggi considerata un grave errore da magistrati come Edmondo Bruti Liberati, presidente di Anm ai tempi degli scontri col governo Berlusconi, e Paolo Borgna ex procuratore aggiunto di Torino, nei loro ultimi libri. Borgna ha parlato di un improprio «potere di interdizione» utilizzato dalla magistratura.
Esemplare di tale atteggiamento è stato l’intervento di Eugenio Albamonte, uno dei leader di Area la corrente maggioritaria di sinistra dell’associazione magistrati: egli ha lamentato la vaghezza delle disposizioni disciplinari che esporrebbero i magistrati a iniziative punitive pretestuose senza rendere prevedibili ai magistrati le varie ipotesi di infrazione.
Sia permesso ricordare che la “vaghezza” della norma non impedisce da sempre alle procure di contestare, e ai tribunali di condannare, centinaia di pubblici amministratori per reati come abuso di ufficio e traffico di influenze, del tutto privi di struttura pre-definita e in genere per un vasto numero di reati “a condotta libera”, davanti ai quali il cittadino dovrebbe costantemente consultare in via preventiva un avvocato per evitare rogne.
Per non parlare delle varie forme di “concorso esterno”, tra cui improvvidamente Albamonte ha ricordato Mafia Capitale, che meriterebbe un capitolo e “una pagella” per i teorizzatori, come dimostra la sentenza della Cassazione che bocciò senza scampo la tesi dell’accusa.
E tuttavia ciò che è successo ieri deve preoccupare: dal dibattito e dalle proteste emerge il rischio gravissimo che un pericolo per lo Stato di diritto possa inavvertitamente provenire anche dai settori populisti della magistratura che ieri si sono manifestati apertamente.
Ha ragione Anna Rossomando, presidente Pd della commissione giustizia del Senato, a ricordare che l’antipolitica è qualcosa che può colpire anche la categoria delle toghe e la stessa Anm.
Per evitare ciò, sia consentito un sommesso e non richiesto consiglio agli eroici 169 che ieri hanno avuto il coraggio inaudito di votare “no” allo sciopero.
È tempo che la minoranza laico-riformista della magistratura si manifesti, rompa il clima di fittizia unanimità (per non dire di omertà) sui vizi della corporazione e dissenta pubblicamente.
La magistratura ha il potere di incidere sulle leggi interpretandole e sollevando un conflitto davanti alla Corte costituzionale: se è convinta dell’ingiustizia della riforma lo faccia come è suo diritto indiscusso. Ciò che non può fare è prevaricare il Parlamento che legittimamente approva le leggi.
È questo che sfugge ai 1081 che ieri in nome della maggioranza dei magistrati hanno chiesto di scioperare: loro non sono operai o una minoranza senza potere. Essi sono un pezzo dello Stato che non può picconare sé stesso.
In questo momento storico in cui lo Stato di diritto è sotto attacco sarebbe una colpa imperdonabile per la magistratura trasformarsi in un antagonista populista.