Sono passati trentuno anni da quando l’Italia fece la conoscenza di Maurizio Cocciolone, capitano di aviazione, e del suo secondo Daniele Bellini, precipitati nel deserto del Kuwait durante una missione militare e catturati dall’esercito di Saddam Hussein.
Il leader iracheno pensò bene di terrorizzare l’Italia trasmettendo il filmato dell’ufficiale con un occhio pesto che farfugliava inviti alla pace.
Bastò quello ad originare un vivace movimento di protesta pacifista alla cui testa si mise addirittura Emilio Fede che aveva colto lo scoop della guerra al volo, mentre circolava anche un remix delle frasi del prigioniero battezzato «my name is Cocciolone».
Come andò a finire la guerra e la vicenda dei due militari è cosa nota: l’esercito di Saddam, il Feroce Saladino, si dissolse in pochi giorni e i due italiani tornarono incolumi, accolti ovviamente come eroi.
Il ricordo di quell’inaspettata disfatta e dello psico-dramma del pacifismo italiano mi è tornata in mente diverse volte in questo periodo di guerra in Ucraina.
Allora il terrore degli Alessandro Orsini dell’epoca (intesi come i predecessori dell’ormai popolare professore) era l’arsenale batteriologico e chimico che Saddam aveva largamente impiegato nella guerra dell’anno precedente contro l’Iran. In realtà non l’usò mai, neanche quando gli americani invasero il Paese nel 2002 dopo le stragi dell’11 settembre 2001.
A disarcionare la potenza americana non furono le armi di distruzione di massa, ma le forbicine con cui i terroristi si impadronirono degli aerei che schiantarono contro le torri del World Trade Center a New York e al Pentagono, e poi la guerriglia dinamitarda dei Talebani in Afghanistan.
Oggi il mondo è tornato a tremare (leggete pure le cronache dal Kuwait, le previsioni catastrofiche, ben altro è arrivato): mentre si paventa l’olocausto nucleare, la cronaca dai campi di battaglia ci rimanda immagini di un esercito russo brutale ma rallentato da uno meno numeroso, ma meglio motivato.
Secondo La Repubblica, durante un vertice romano delle agenzie di intelligence americane ed europee si è arrivati alla conclusione che le risorse belliche della Russia sono sufficienti ancora per un mese.
Sarà vero? Non saprei dire, certo c’è un episodio che da avvocato mi fa sorgere un serio dubbio: la querela presentata dall’ambasciatore russo Razov contro il quotidiano La Stampa, colpevole di aver ipotizzato nientemeno che il possibile assassinio dell’amato leader Putin.
La cronaca racconta che il diplomatico ha improvvisato una conferenza davanti all’ingresso del principale del Tribunale di Roma dove si sarebbe recato a depositare l’atto. Una cornice disadorna di un giardinetto triste, dove sono soliti presenziare i querelomani che si lamentano delle ingiustizie dei tribunali ai loro danni, ha fatto da sfondo alle minacce e agli insulti di Razov al giornale di Torino.
Lungi dal voler svilire la drammaticità del momento, da modesti praticoni del diritto ed esperti della realtà giudiziaria romana tocca osservare che la visita di Razov a piazzale Clodio sembra più che altro una messinscena degna di Borat Sadgyev, l’immaginario giornalista del Kazakistan ideato da Sacha Baron Cohen.
Il punto è che da circa due anni querele e denunce si possono inoltrare solo ed esclusivamente per via telematica su di un apposito portale del Ministero di giustizia italiano sicché l’idea di Razov che vagola nei corridoi del disadorno palazzone alla disperata ricerca di un’anima buona di burocrate disposto a raccogliere la querela ha una sua forte comicità da farsa italiana («la querela? Embé, nun cio’ sai che la devi manna’ sur portale, a Razov macchestaiaddi’?»), ma appare improbabile.
La Procura di Roma col riserbo che la contraddistingue non ha confermato, ma diciamo che siamo in grado di tranquillizzare Giannini e il gruppo Gedi (a titolo gratuito, che di questi tempi per una casa editrice non è male), salvo immaginare l’ambasciatore Razov a pestare i tasti di un pc per capire come si invia una denuncia, atto che richiede attitudini particolari e la fortuna di beccare il portale funzionante.
C’è un legittimo interrogativo da porsi che riguarda lo stato di salute di un regime che deve ricorrere a una messa in scena da cine-panettone per minacciare un giornale. Forse ha ragione Marx, la storia si ripete sotto forma di farsa. Anche tragica e sanguinosa, ma farsa.