Abbiamo sempre inteso la meritocrazia come un valore intrinsecamente positivo. Il fatto che i successi dipendano dagli sforzi, dall’impegno e dalla determinazione e non da fattori casuali e arbitrari implica che chi arriva al vertice, chi ottiene cariche di potere, chi insomma «ce la fa» è qualificato, competente e forte. All’interno di un Paese come il nostro, per giunta piagato a lungo da sistemi di corruzione e nepotismo, l’assegnazione in base al merito dovrebbe rappresentare un tassello di emancipazione evolutiva essenziale.
E se invece non fosse così?
Michael Sandel, filosofo statunitense, docente all’Università di Harvard e autore di La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti, edito da Feltrinelli nell’aprile del 2021, non ha alcun dubbio: «La meritocrazia è ingiusta. Induce a dimenticarsi che sono la fortuna e la buona sorte a decidere il successo degli individui, nella maggior parte dei casi», spiega a Linkiesta.
E la fortuna e la buona sorte, ancora oggi, sono sinonimi di disponibilità economica. Le università americane della Ivy League contengono una percentuale più ampia di studenti ricchi. Avere alle spalle una famiglia danarosa, potente conduce verso scelte precise a proposito dell’educazione e dei luoghi in cui riceverla, significa avere viaggiato di più, avere accesso a un giro di contatti che facilita la carriera.
In una parola: agevola.
Il cosiddetto ascensore sociale funziona, è ben oliato se si affronta da una posizione già alta. Nonostante il dinamismo dell’epoca storica globalizzata in cui viviamo, che avrebbe dovuto livellare e redistribuire le condizioni di partenza, il merito rimane una questione di privilegio. Al dunque, consolida una aristocrazia già esistente e scava differenze sempre più incolmabili tra gli individui.
«La fede cieca nella meritocrazia ci ha abituato a ritenere erroneamente che chi raggiunge dei benefici se li è guadagnati e perciò li merita. Al contrario, coloro che non ci sono riusciti meritano il loro destino, meritano di essere rimasti indietro e non hanno che da compiangere se stessi», spiega Sandel.
«La globalizzazione ha favorito i lavoratori di settori specifici, come ad esempio coloro che si muovono nell’ambito dell’industria finanziaria. Ne è esclusa la maggioranza dei lavoratori ordinari. La meritocrazia nasce come nobile progetto volto ad abbattere il privilegio ereditario, si proponeva come soluzione alla disuguaglianza ma ha promosso un atteggiamento nei confronti del successo che ha rinforzato e rafforzato la disuguaglianza stessa».
Questa sorta di lotteria tra i vincitori e i vinti è senz’altro un’estensione del clima perpetuamente competitivo e performativo nel quale siamo immersi. Ma ha anche radici più lontane e viscerali.
Le ha elencate, Micheal Sandel, nel discorso che ha tenuto alla Cattolica di Milano in occasione del ciclo di conferenze «Un secolo di futuro: l’Università tra le generazioni» per celebrare il centenario dell’ateneo.
Secondo il filosofo, è stata la cultura biblica occidentale a impartire la logica per cui azioni buone o cattive sono oggetto di ricompense o punizioni. L’idea che la condotta individuale, se virtuosa o deplorevole, ha il potere di decidere di un intero destino e addirittura conduce allo scarto tra condanna e salvazione appartiene alla storia delle nostre origini cristiane ed è oggi alla base dell’atteggiamento nei confronti del successo.
Chi produce e accumula ricchezze e per questo amministra la società sembra ritenere la prosperità sintomo e sinonimo di merito mentre la povertà è automaticamente espressione di pigrizia.
L’implicita tirannia di una concezione del genere trova un suo esempio primordiale nel libro di Giobbe. Giobbe è un uomo giusto, buono e meritevole, eppure l’ira e l’odio di Dio si scagliano lo stesso sul suo cammino. La vita diventa un calvario insopportabile senza apparente motivo e, soprattutto, anche a fronte delle più promettenti premesse.
È proprio questa mancanza di senso e di risposte che Sandel chiama a sostegno della sua tesi. La casualità a prima vista spiazzante della condizione umana, il fatto che la pioggia non giunge solo per nutrire e rendere fertili i terreni, ma anche per razziare e distruggere, libera dal peso gravoso della responsabilità e restituisce agli uomini la possibilità della creazione.
Oggi, il dibattito non riguarda più il concetto di salvezza. È stato spogliato di ogni sua dottrina religiosa ed è diventato laico, ma in fondo è sempre lo stesso. Crediamo ancora nell’ordine provvidenzialistico della meritocrazia. Il successo e le conquiste sono una cartina di tornasole delle capacità del singolo, dipendono da lui, e il buon esito delle sue manovre gli consente di considerarsi beatificato.
Come sosteneva il sociologo Max Weber, una persona fortunata raramente accetta di essere tale. Vuole convincere se stessa e gli altri di rappresentare qualcosa di più della semplice depositaria di un bene precario e privo di logica. Allo stesso modo in cui oggi i potenti e i ricchi devono dimostrare a tutti i costi di essersi meritati e guadagnati la fortuna, senza capire che così reiterano la distanza con il resto della popolazione.
Riconsiderare l’assegnazione meritocratica non significa puntare al ribasso. Siamo tutti consapevoli della debàcle in cui è piombata la politica italiana quando si è consegnata all’appiattimento delle competenze per una retorica propagandistica e populista. Ma nell’ottica di Sandel, l’America di Donald Trump, l’Italia di Matteo Salvini, la Francia di Marine Le Pen, il Brasile di Jair Bolsonaro altro non sono che la reazione di un popolo sempre più scollato dalle cosiddette èlite, dalle quali si è sentito burlato e mal governato.
Bisogna che a prendere le decisioni siano i migliori sì, ma chi sono i migliori? Non certo coloro che hanno provocato la deregolamentazione dei mercati finanziari, la crisi del 2008, la delocalizzazione delle attività produttive nei paesi a basso reddito, e che si sono resi complici dell’attuale, spaventosa crisi climatica e ambientale.
Andrebbero valorizzati e rafforzati quei mestieri bistrattati dall’ingiusta retorica del merito, e che invece reggono l’intera società, come ci ha appena insegnato la pandemia: infermieri, corrieri, insegnanti, assistenti per l’infanzia, cassiere del supermercato, farmacisti, psicologi.
Insomma, anche e soprattutto chi si colloca apparentemente “in basso”.
«Alcuni critici ritengono che superare l’idea odierna di meritocrazia condurrebbe a un mondo in cui tutti hanno lo stesso reddito, la stessa quantità di ricchezza, e sono dunque tutti uguali nel senso più deprezzato del termine. Ma io penso che ci sia un’alternativa: una vasta uguaglianza democratica di condizioni. La democrazia non richiede un’uguaglianza perfetta tra tutti gli individui, ma che le persone appartenenti a background sociali diversi abbiano la possibilità di incontrarsi e di mischiarsi nel corso della vita quotidiana. Oggi questo non avviene, perché a seconda dell’accesso a determinate risorse economiche mandiamo i figli in scuole diverse, frequentiamo zone diverse della città, scegliamo mete diverse per le vacanze. Ma è attraverso la negoziazione di queste differenze che si costruisce il “common good”, il bene comune».
E no, la rivoluzione digitale non ha affatto contribuito a creare il progresso libertario di cui molti, quasi tutti, sono illusoriamente convinti. Secondo Sandel, i social network consolidano le opinioni di partenza, ci avvicinano a utenti e a gruppi e a communities che la pensano già come noi, con i quali condividiamo una struttura di base orientata nello stesso senso. Non creano, non moltiplicano, non ampliano. Anzi, spesso sono stati il veicolo maggioritario per posizioni ideologiche rancorose.
Per risultare davvero efficaci, devono diventare lo strumento di una nuova politica del bene comune che incoraggi la dignità del lavoro e il senso di solidarietà.
Fermo restando che il successo dipende da circostanze accidentali e fortuite della vita, non può coincidere con il potere. È necessario guardare all’altro secondo un processo di immedesimazione: io potrei essere lui, lui potrebbe essere me.
È da qui che nascono il riconoscimento, la stima sociale, e il concetto stesso di democrazia.