La civiltà planetariaIl sentimento errato della decadenza e la nascita di una nuova modernità

Solo con un accurato studio della storia, sostiene Aldo Schiavone nel sul ultimo libro (Il Mulino), siamo in grado di cogliere il senso del presente e intuire le direzioni dell’avvenire. Il caos attuale distrae e induce a credere (sbagliando) che ci troviamo nel periodo finale di un’epoca

di Hadja Saidi, da Unpslash

[…] Possiamo dire sin d’ora che in tutte le predizioni di declino o addirittura di rovina dell’Occidente c’è un tratto comune, al di là degli eventuali elementi di verità che in qualche caso possono contenere.

Viviamo in un mondo che non è mai stato così complesso e anche così caotico – di una complessità che produce (tra molte altre cose) disordine – con due principali componenti che concorrono, sia pure non da sole, a determinare questi caratteri.

La prima è un prodotto delle nuove possibilità della tecnica, che mettendo in contatto realtà finora non comunicanti e anzi drasticamente separate – nello spazio e nel pensiero – ha moltiplicato reti di interazioni sempre più intricate e difficili da decifrare, creando un contesto che è estremamente arduo comprendere e padroneggiare.

La seconda è costituita dalla convivenza intorno a noi – quasi dovunque in Occidente, come esito del salto tecnologico – di due insiemi culturali e sociali del tutto disomogenei, ma intrecciati l’uno nell’altro, ciascuno dei quali condiziona e coinvolge in modo opposto: uno che sta sparendo – in maniera spesso dolorosa e a volte perfino cruenta – mentre l’altro sta appena cominciando a formarsi, e non ha ancora un volto ben definito, anche se già se ne avvertono la presenza e l’impatto. Un contrasto che spacca le generazioni, le famiglie, le istituzioni: scuola, imprese, lavoro, la forma delle città e dei quartieri, persino l’ordine internazionale.

Orientarsi in questo intrico, venire a capo delle sue sconnessioni, è tutt’altro che facile. Richiederebbe conoscenze e strumenti interpretativi che non sono agevoli da mettere in campo; e condizioni di vita che dovrebbero consentire la riflessione e l’approfondimento. E soprattutto, per capire avremmo bisogno di una vera e propria pedagogia del futuro, di una vocazione alla lettura del tempo che si apre che dovrebbero essere assicurate proprio da quella politica e da quei saperi sociali di cui invece abbiamo constatato la rarefazione e la debolezza. Con il risultato di ritrovarci inermi di fronte a un groviglio di fatti e di stati mentali – una specie di selva oscura della nostra comprensione e dei nostri sentimenti, ampliata dal rumore dei media e spesso da miopi calcoli di potere della politica – senza avere la chiave per uscirne. Come se fossimo finiti in una zona morta della nostra capacità di vedere, dove riusciamo a distinguere una serie di dettagli – di solito quelli più vicini e più sfavorevoli – ma non siamo capaci di rintracciare il senso dell’insieme, di cogliere la direzione complessiva dei processi in cui siamo coinvolti.

Il presente in tal modo smette di essere un punto d’osservazione – prezioso perché è l’unico di cui disponiamo – e si trasforma in una trappola da cui non si riesce a sfuggire.

Accade così di scambiare l’oggettiva mole delle difficoltà che si addensano intorno alle nostre vite, la crisi improvvisa di sistemi di riferimento che ritenevamo definitivamente consolidati, oppure quella percezione di incompiutezza e di non finito del nostro mondo di cui prima dicevamo, per segni di un declino – o peggio di un incombente disastro – che invece è soprattutto un passaggio d’epoca che si sta consumando nella tempesta. E rischiamo di confondere la forma storica della decadenza con quelle che sono solo le macerie che si accumulano quando un intero universo sta cedendo il posto a un altro che è nato da lui e ne rappresenta in qualche modo la continuazione, ma su un piano del tutto nuovo e inesplorato: e che per conquistare il proprio spazio deve distruggere molti vincoli e legami, e annientare intere reti di relazioni sociali e di costruzioni culturali.

In realtà, non siamo alle soglie di una fine annunciata. Siamo i coinvolti spettatori di un tormentato inizio, che potrà prendere strade diverse, anche molto lontane fra loro, ma di cui proprio l’Occidente è il protagonista assoluto, anche se un protagonista incompiuto: con tutta la multiformità della sua storia, le sue miserie, le sue grandezze, i suoi fallimenti, ma anche i suoi successi, le sue conquiste e la forza debordante delle sue invenzioni: con tutto il male e il bene di cui si è dimostrato capace in un cammino travolgente.

Nel suo destino, qui e ora, è scritto come non mai il destino della nostra intera specie: non vi sono alternative, né si intravedono altre vie d’uscita. Questo ci carica di responsabilità enormi, cui non possiamo sottrarci. Diventarne consapevoli è il primo passo per essere all’altezza del compito che abbiamo di fronte.

L’Occidente ha costruito ciò che abbiamo chiamato modernità – e l’ha fatto non solo per sé stesso, ma per tutto l’umano: ce ne stiamo appena rendendo conto. In effetti però, se guardiamo bene come solo ora ci è consentito di fare, ci accorgiamo che quella che abbiamo finora sperimentato non è stata la modernità nel suo pieno realizzarsi – come si è a lungo creduto – ma solo una specie di suo straordinario per quanto difficile prologo. Una faticosa e non lineare preparazione del salto decisivo che solo adesso stiamo iniziando a spiccare: una specie di protomodernità cominciata nelle città italiane del Rinascimento e conclusa sulle rive del Pacifico con l’avvio della rivoluzione tecnologica del tardo Novecento e con il culmine politico dell’impero americano che hanno gettato un ponte tra i due lembi di quell’oceano.

Sì, perché l’autentica modernità dell’umano – di tutto l’umano, nella scia dell’Occidente; ma forse si dovrebbe dir meglio: di tutto l’umano trainato dall’Occidente – sta in effetti cominciando solo ora, sotto i nostri occhi confusi e inquieti. E il suo compimento, ammesso che sarà dato mai di raggiungerlo, è ancora indefinitamente lontano, e comunque dipenderà dalle nostre scelte e dalla nostra capacità di visione.

È la storia che ci può aiutare a capire, che può rendere possibile questo radicale ma indispensabile cambio di prospettiva, aperto sul futuro. Non soltanto la storia, probabilmente: ma lei di sicuro. Ed è innanzitutto un difetto di adeguata storicizzazione a impedirci di mettere nella giusta luce quel che si vede dal nostro oggi, e a farci confondere l’alba con il tramonto, l’incompiutezza con il declino. Quasi avessimo smarrito la capacità di connettere gli eventi secondo strutture di senso che solo se colte attraverso la loro storicità possiamo sperare di rappresentare nella loro completezza, e quindi di conoscere veramente. Come se la ragione delle cose che stanno accadendo avesse sovrastato la razionalità del pensiero che dovrebbe comprenderle: una condizione che se durasse a lungo, allora sì, che potremmo dire di essere perduti.

Questo scacco intellettuale, auguriamoci provvisorio – questa specie di stallo conoscitivo – ci dà la sensazione di vivere in un’epoca che, a causa della sua stessa complicazione, sembra condannata a perdersi continuamente dentro sé stessa, avendo smarrito il senso del legame che la tiene stretta a ciò che è stato, non meno che a ciò che sarà; che non sa più trovare il filo del dialogo con il suo passato e con il suo futuro: con un passato rivelato criticamente per quello che è, senza bisogno di rimuoverlo per venirne a capo, e con un futuro ritrovato come luogo di progetti da realizzare, come insieme di possibilità già anticipate nel presente. Perché questo è capire davvero la storia, oggi più che mai: un esercizio ininterrotto di profezia sul passato, non meno che di disvelamento delle potenzialità del futuro.

da “L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria”, di Aldo Schiavone, Il Mulino, 2022, pagine 184, euro 15