Cambiamenti strutturaliIl rinvio del Patto di stabilità e i timori di un’Europa che pensa di abbandonare il rigore

Se non ci saranno altre proroghe tornerà nel 2024, a distanza di quattro anni dalla sua ultima applicazione. Di fronte a un continente molto diverso rischia di risultare inadeguato. Eppure, come sostengono i cosiddetti falchi, farne a meno sarebbe pericoloso

di Roman Koester, da Unsplash

La scelta di sospendere anche per il 2023 il patto di stabilità, contenuta nelle raccomandazioni per il semestre europeo presentate lunedì dalla Commissione Europea, è destinata a riproporre lo scontro in merito alle politiche fiscali e monetarie Ue ben oltre il piano di contingenza delle misure a breve termine, legate alla pandemia e alla crisi energetica e alimentare causata dal conflitto in Ucraina.

Il patto limita il deficit e il debito pubblico dei Paesi Ue rispettivamente al 3% e al 60% del Pil, e stabilisce percorsi di riduzione progressiva del debito in caso di superamento di queste soglie. Negli anni, è diventato uno dei principali punti di scontro tra i “falchi”, cioè chi è favorevole a politiche di rigoroso contenimento del debito pubblico, e “colombe”, cioè coloro che vorrebbero politiche espansive e, talvolta, anche forme di debito comune europeo.

Nel marzo del 2020 il patto è stato sospeso, utilizzando la clausola di salvaguardia generale prevista dalle regole europee, per permettere agli Stati di far fronte alle spese impreviste causate dall’emergenza pandemica. Nelle intenzioni della Commissione, sarebbe dovuto tornare in vigore nel 2023, ma ieri la sua sospensione è stata prolungata di un anno. Nella documentazione che ha accompagnato le linee guida, si legge che l’«incertezza e i forti rischi al ribasso per le prospettive economiche nel contesto della guerra in Ucraina», insieme ai «forti aumenti dei prezzi dell’energia» e i «disagi causati alle catene di fornitura» giustificano l’estensione della clausola di salvaguardia generale.

Nella conferenza stampa in cui è stata annunciata la misura, il vice presidente della Commissione e Commissario al Commercio Valdis Dombrovskis ha spiegato che la proroga «non è un liberi tutti» e non va letta come una sospensione delle regole UE, ma è giustificata dalle stime di crescita al ribasso: «la Commissione ritiene che l’Unione non sia ancora uscita da un periodo di grave recessione economica. Su questa base, sono soddisfatte le condizioni per mantenere la clausola generale di salvaguardia nel 2023».

Secondo i dati della Commissione Europea, attualmente 17 Stati membri non rispetterebbero le regole del deficit e cinque quelle del debito (l’Italia è in entrambi i gruppi), e per far rientrare tutti nelle regole servirebbe uno sforzo fiscale che rischierebbe di compromettere la crescita, soprattutto in un momento così delicato.

Al di là delle parole di Dombrovskis, comunque, è chiaro che la proroga della sospensione può potenzialmente porre un tema politico più generale, contro l’interpretazione fornita dalla Commissione che la vorrebbe come una semplice misura contingente. È dal 2020, infatti, che il patto di stabilità è sospeso. Quando tornerà in vigore, ammettendo che la situazione non renda necessaria altre proroghe, saranno passati quattro anni dalla sua ultima applicazione.

Sul piano concreto, per molti Paesi non sarà semplicissimo prevedere piani di rientro nelle soglie di debito e di deficit; sul piano più politico, inoltre, i quattro anni che intercorreranno dalla sua sospensione potrebbero sembrare appartenenti a una diversa era geologica, pre pandemia e antecedente al conflitto in Ucraina. Nel frattempo, per giunta, l’Unione Europea ha varato Next Generation EU, uno strumento che ha segnato un vero e proprio momento storico nelle politiche europee anche grazie al fatto che per la prima volta si è prevista l’emissione di debito comune.

Uno storico tabù euro, il debito comune, avversato a lungo da alcuni gruppi politici e da alcuni Paesi, è stato in parte infranto, anche se non con l’introduzione strutturale degli eurobond. È chiaro, quindi, che a quel punto una ridiscussione di alcune regole monetarie e fiscali europee sembrerebbe a molti più che legittima, tanto più se si considera che prevedere forme di debito comune è una richiesta di alcuni gruppi politici al Parlamento Europeo, come i Verdi e i Socialisti&Democratici.

Non è un caso, del resto, che la decisione della Commissione Europea abbia visto le critiche dei falchi. Ad esempio Christian Lindner, segretario dei liberali tedeschi della FDP, partito fortemente europeista e fortemente rigorista, ha detto chiaramente al Financial Times che la proroga non deve diventare un modo per ripensare le regole finanziarie europee.

«La decisione di estendere la clausola di salvaguardia non deve essere vista come un precedente, o un preludio a una riforma delle regole Ue sul debito», ha detto Lindner, affermando inoltre come lo stesso NextGeneration EU debba rimanere uno strumento legato all’emergenza della pandemia, e la Germania non deve supportare nuova emissione di debito comune.

Le parole di Lindner, però, oltre a essere una rivendicazione delle posizioni politiche consolidate presso i liberali tedeschi e in generale verso gli Stati membri più contrari a forme comuni di debito, manifestano forse anche la preoccupazione che in qualche modo la battaglia rigorista rischi di essere già persa.

L’Europa che uscirà dalla pandemia, e che farà i conti con le conseguenze della guerra e delle sanzioni, sarà profondamente diversa da quella del 2020, e una serie di precedenti potrebbero diventare rilevanti nella dialettica politica tra i gruppi dell’Eurocamera, aprendo effettivamente alle riforme temute da Lindner. In questo senso, la scelta della Commissione Europea potrebbe non venir letta, in futuro, come una misura temporanea, ma piuttosto come la dimostrazione che qualcosa a livello europeo è già cambiato.