Il grande negoziatoIl piano italiano per la pace ha qualche pregio e molti limiti, ma almeno guarda avanti

Pur non trattandosi di un documento perfetto, la proposta ha sicuramente il merito di segmentare la mostruosa quantità di patologie politiche che affliggono la regione, secondo il principio che presto o tardi saremo costretti a trattare con un regime con cui non condividiamo nulla

AP Photo/Bernat Armangue

La pace, come la guerra, è una gara di resistenza. La comunità euroatlantica (Ue e Nato) e le truppe ucraine hanno decisamente dimostrato di poter usare la forza del proprio peso economico e, soprattutto, gli aiuti militari a Kiev. Ma la guerra ha una propria logica, si autoalimenta ed è quasi impossibile controllarne la traiettoria; la pace può essere raggiunta solo quando esiste un piano sensato presentato quando le fazioni maggiormente coinvolte raggiungono uno stato di “mutually hurting stalemate”, uno stallo il cui tributo di soldi, sangue e capitale politico pesa su tutti.

Il piano di pace del governo italiano, presentato al Segretario generale delle Nazioni Unite, ha molti meriti e sicuramente rappresenta il programma più dettagliato degli ultimi giorni e l’unico con la lungimiranza di porre l’accento sui passaggi politici che dovrebbero avvenire dopo il cessate-il-fuoco. È improbabile che vedrà mai la luce: le reazioni modeste degli alleati italiani e le dinamiche nel campo militare russo suggeriscono che il momento in cui riuscirà a coinvolgere le fazioni rilevanti per la sua attuazione non è ancora arrivato. In più, non mancano i difetti, soprattutto per quel che riguarda alcune scelte rispetto al coinvolgimento multilaterale di altri attori globali.

Detto questo, il buon impianto presentato dal governo italiano si avvicina verosimilmente a quello che sarà il processo che potrebbe emergere se e quando Mosca si deciderà a interrompere la corsa verso il baratro. Per questo vale la pena di analizzare il riassunto della bozza pubblicata da Repubblica la settimana scorsa.

Il piano si delinea in quattro fasi. Prima di tutto si prevede un cessate-il-fuoco e la demilitarizzazione della linea del fronte. Basandoci sulla tradizione della politica estera italiana e le proposte emerse soprattutto nel contesto libico per limitare le ingerenze di potenze straniere, è verosimile che ciò includerebbe il coinvolgimento di peacekeeper delle Nazioni Unite. Una missione di osservatori, effettivamente, non sarebbe sufficiente per la situazione. Il vero problema sarebbe però la presenza di attori non-statali e nazionalmente autonomi rispetto allo stato russo. Se è vero che le missioni dei caschi blu richiedono il consenso di chi è schierato su entrambi i lati del fronte, le truppe delle repubbliche separatiste potrebbero plausibilmente agire da “peace spoilers”. In termini pratici, ciò vuol dire che potrebbero effettuare azioni di disturbo ai danni degli ucraini godendo della protezione politica dei russi, che potrebbero nascondersi dietro alle formalità: i separatisti hanno strutture militari autonome, Mosca può fare pressione ma non può certo controllare soldati di stati che ritiene indipendenti. Questo è lo stesso stratagemma utilizzato durante le trattative sul Donbass prima del 24 febbraio 2022, e la neutralità assoluta dell’Onu costringerebbe il contingente a prendere per buona la posizione del Cremlino.

La seconda fase riguarda un negoziato sullo status futuro dell’Ucraina, resuscitando le proposte circolate nelle ultime settimane su una neutralità di Kiev con garanzie militari offerte dalle grandi potenze. Questo trattato dovrebbe essere espressione di una conferenza multilaterale e permettere comunque il futuro accesso ucraino all’Ue. Un fattore positivo è che ciò fornirebbe all’Ucraina uno scudo politico e militare prima della fine del processo di pace, diminuendo così i rischi e i sospetti di possibili colpi di mano durante i colloqui diplomatici.

La terza fase dovrebbe poi sfociare in un trattato bilaterale fra Russia e Ucraina sui confini fra i due paesi, mediato sempre dal Gruppo di Contatto multinazionale. Essenzialmente si potrebbe puntare a una soluzione di tipo “vivi e lascia vivere”: anche senza un riconoscimento reciproco fra Mosca e Kiev, vengono citate infatti questioni come la libera circolazione dei cittadini fra zone occupate e resto del paese, una zona economica comune, garanzie linguistiche per la minoranza russa eccetera. L’intenzione sarebbe replicare il punto d’arrivo a cui tendevano i negoziati del 2015-22, una soluzione che permetterebbe di superare l’impasse politico permettendo ai cittadini di ricominciare a vivere.

Se l’esperienza della guerra di posizione in Donbass è indicativa, anche solo l’apertura dei posti di blocco lungo il fronte congelato sarebbe molto difficile. Nella prima fase della guerra il Donbass è rimasto sostanzialmente isolato dal resto del Paese e ci sono voluti anni prima che l’Ucraina accettasse di farsi carico dei costi di sostentamento per una regione funzionalmente annessa alla Russia. Questo tipo di accordi informali non sono sostenibili nel lungo periodo e sono le principali cause che portano i “frozen conflict” (conflitti a lungo sopiti ma mai veramente risolti) a riemergere con violenza periodica. Rimane anche da vedere se l’Ucraina sarebbe disposta a un tale compromesso su Kherson, la città più grande attualmente occupata dai russi.

L’ultimo capitolo del piano riguarda un grande accordo fra Ue, Nato e Russia, con un rinnovamento dell’Osce come forum est-ovest. Anche questo è stato uno dei fini ultimi che molti leader europei, specialmente in Germania, hanno perseguito fra il 2008 (su iniziativa della colomba Dimitri Medvedev, prima della sua spettacolare trasformazione in mastino di guerra) fino agli ultimi giorni di pace. Un’aggiunta positiva è il ruolo previsto per la Partnership Orientale dell’Unione Europea, grande assente finora nell’architettura europea di sicurezza.

Insomma, pur non trattandosi di un piano perfetto, la proposta ha sicuramente il merito di segmentare la mostruosa quantità di patologie politiche che affliggono la regione, secondo il principio che presto o tardi saremo costretti a trattare con un regime con cui non condividiamo praticamente nulla.

Per ora la comunità internazionale ha reagito tiepidamente, ed effettivamente è difficile immaginare come questo processo potrebbe essere lanciato a ridosso del fallimento di Istanbul nel mediare un cessate-il-fuoco. Il ruolo centrale del Gruppo di Contatto (che includerebbe le potenze con diritto di veto alle Nazioni Unite, Ue, Onu, Germania, Italia, Turchia e Israele), più il lancio di un circuito di conferenze multilaterali, ha sicuramente sia sostenitori che detrattori. Un tale approccio ottocentesco ha dimostrato di riuscire a raggiungere obiettivi a corto termine, come è stato per il cessate-il-fuoco negoziato in Libia all’indomani della Conferenza di Berlino nel 2020. È però difficile che un tale gruppo sia sostenibile nel lungo periodo e che abbia più successo di formati multilaterali già esistenti e dotati di una robusta struttura amministrativa.

L’intraprendenza del governo Draghi è supportata dal recente viaggio a Washington e, nonostante la velata irritazione di Bruxelles, dal fatto che il piano presenta alcune parole d’ordine care sia a Berlino che a Mosca. Questo è un passo forse necessario che però comporta anche un grosso rischio. L’idea di un “grande negoziato” non è lontana dalle posizioni russe, come ha scritto Dimitry Drize del Kommersant, ed evoca lo spettro di Yalta, il riconoscimento della Russia come co-egemone per grazia divina nell’ordine europeo. È una chimera inseguita a lungo da Mosca: sarebbe strategicamente saggio per l’Ue conformarsi alle preferenze del suo avversario?