L’identità mitomaneStoria della ladra d’empatia che ha mentito sulla sua malattia, fregando i boccaloni americani

La sceneggiatrice di Grey’s Anatomy Elisabeth Finch ha finto per anni di aver avuto un cancro alle ossa, di aver fatto un trapianto di rene e di aver abortito perché in chemioterapia. Non era vero, ma nessuno ha controllato e ora su Twitter gli intellettuali d’oltreoceano si disperano come se il suo lavoro avesse a che fare con la cartella clinica e non con la fantasia

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Ci sono volte in cui una storia è così bella che non sai da che parte prenderla: è una storia che parla della sindrome di Münchhausen? È una storia che parla della ricattabilità d’un’epoca che ha deciso che l’emotività conti più di tutto? È una storia che parla di quanto siamo tutti allocchi quando incrociamo un mitomane? È una storia che parla di noi?

La storia di Elisabeth Finch è tutte queste cose e anche, temo, la storia di come i giornali americani non si rendano conto di quali errori d’impostazione filosofica da loro perorati emergano dalle storie che raccontano.

Elisabeth Finch era, fino a marzo, una sceneggiatrice di Grey’s Anatomy, il polpettone medico americano attualmente alla sua diciottesima stagione, inventato da Shonda Rhimes, la quale in anni recenti l’ha mollato per firmare un’esclusiva con Netflix (Grey’s continua ad andare in onda sulla Abc, una rete generalista: è forse l’ultimo prodotto della serialità televisiva americana a non avere più recensioni che spettatori; la prima produzione di Rhimes per Netflix è stata Inventing Anna, la storia della mitomane Anna Delvey: tenete a mente questo dettaglio, tra un po’ converrete che la vita sia sceneggiatrice).

Quando a Grey’s Anatomy era arrivata una nuova capa, non voleva rinnovare il contratto a Finch: non le piacevano le sue sceneggiature. Poi le avevano fatto leggere uno dei molti articoli strazianti sul suo cancro, il suo aborto, i suoi traumi che aveva pubblicato Finch in questi anni, e la nuova capa le aveva rinnovato il contratto grazie alla voce più utile nei curriculum contemporanei: la poverinitudine.

Elenco non esaustivo di cose che sarebbero capitate a Elisabeth Finch in quarantacinque anni di vita. Le viene un raro cancro delle ossa, di solito mortale. Non muore ma neanche guarisce, passa anni a fare la pendolare tra le riunioni di sceneggiatura e la chemioterapia, e in qualche modo questo cancro rende necessario un trapianto di rene. Deve abortire perché è in chemioterapia. Suo fratello la stuprava da piccola, poi si è suicidato ma l’ha fatto sparandosi male (era un medico, quindi sapeva quel che faceva) in modo da restare in coma e costringerla a essere quella che dava l’ordine di staccare il respiratore. In una strage in una sinagoga a Pittsburgh viene ucciso un suo vecchio amico, e a Finch tocca ripulire il cervello dal pavimento.

In che modo tutto questo incide sulla sua carriera? Nessuno, in un mondo ideale in cui scrivere opere di fantasia sia un lavoro che ha a che fare con la tua fantasia e non con le tue cartelle cliniche, reali o immaginarie (fingersi malati per attirare l’attenzione – appunto: la sindrome di Münchhausen – non è né una novità né una rarità).

Tantissimo, nel mondo distorto che abbiamo costruito. Un mondo in cui predomina l’epistemologia identitaria – e quindi: non scriviamo questa puntata su un paziente col cancro così perché funziona meglio, scriviamola cosà perché quella nel gruppo di autrici che ha il cancro dice «voi che ne sapete, io l’ho vissuto, io so»; un mondo in cui gli standard negli ambienti lavorativi abitualmente competitivi vengono abbassati se hai il ricatto della malattia, della morte, della qualsivoglia sfiga: mica vorremo pretendere consegni puntualmente il suo lavoro, con tutto quel che le è successo.

Quando un paio di mesi fa è venuto fuori che la Disney (che possiede la Abc) aveva sospeso dal suo incarico la Finch perché forse non aveva avuto davvero il cancro, ho pensato che fossimo in piena ubriachezza identitaria: per scrivere personaggi di fantasia malati devi essere malata? Ora l’edizione americana di Vanity Fair ha ricostruito la sua storia, ed è un formidabile saggio sul tempo sbandato che abitiamo tutti quanti.

Non si sa da dove cominciare a raccontarla, ma Teodosio Losito ne avrebbe fatto almeno cinque stagioni con Gabriel Garko nel ruolo del fratello spacciato per cattivo (o forse dell’ex marito cattivo della ex moglie lesbica – lo so, ci vuole uno schema dei personaggi come per leggere Guerra e pace).

L’ex moglie è un personaggio fondamentale: è un’infermiera, e Finch la incontra quando sono entrambe pazienti in una clinica per malattie mentali (garanzia di lieto fine). Jennifer Beyer è lì perché ha degli episodi dissociativi e teme il marito da cui si sta separando le faccia togliere i figli. S’innamora di Elisabeth Finch che è ricoverata – forse il dettaglio più incredibile – sotto il nome di Jo, il personaggio di Grey’s Anatomy con l’ex marito violento. Quante cose abbiamo in comune, pensa la non sveglissima Beyer, che ha pur sempre fatto cinque figli con un violento; e che, soprattutto, non ha imparato nulla da Inserzione pericolosa, il film di trent’anni fa in cui Jennifer Jason Leigh si appropriava della vita di Bridget Fonda.

Finch non solo spaccia per suoi a colleghi e amici i traumi della Beyer – il fratello di Finch sta benissimo e non l’ha mai violentata; è l’ex marito di Beyer che si suicida, e lei spaccia il lutto per suo – ma cerca anche di appropriarsi dei suoi figli. Finché la Beyer – che non sarà un fulmine di guerra, ma è pur sempre un’infermiera – inizia a notare che dove Fincher dovrebbe avere la cicatrice della chemio non c’è niente, che le medicine che dice di prendere non è possibile le prenda, che ha due reni e non uno – quello veramente glielo fa notare un tecnico della risonanza mentre la contaballe sta dentro al macchinario: come Beyer non avesse notato la mancanza di cicatrici da asportazione del rene è un mistero che i due lunghissimi e dettagliati articoli di VF non chiariscono.

Così come non chiariscono un inspiegabile snodo di trama. Poco prima di divorziare (e di raccontare a Shonda Rhimes che ha assunto una bugiarda), Beyer costringe Fincher a confessare a parenti e amici che ha raccontato un sacco di cazzate. E lei lo fa: mi aspetterei la uccidesse, piuttosto. Non ci sono più i Jean-Claude Romand d’una volta.

E non ci sono neanche moltissimi Carrère in giro. Evgenia Peretz che ha scritto l’articolo, ma pure tutti gli intellettuali americani che stanno commentando sui social, increduli che qualcuna abbia potuto approfittarsi così d’una religione quale l’epistemologia identitaria, e che Finch sia un’Anna Delvey che ruba non i soldi ma l’empatia, non sembrano capire cosa ci dovrebbe insegnare questa storia.

Se nelle riunioni di sceneggiatura d’una serie medica l’autrice col cancro è così prepotente e territoriale, rispetto al tema, da farlo diventare una propria esclusiva, e far smettere di proporre a tutti gli altri storie di pazienti col cancro, quel che mi devi dire tu, cronista che ha imparato dagli errori del proprio tempo, non è che Finch ha invaso il territorio di altri due sceneggiatori che pure avevano avuto il cancro – ma erano guariti, lei ce l’aveva in corso e quindi aveva diritto a più punti-sfiga: quel che mi devi dire è perché valgano i punti-sfiga e non quelli capacità, quando sia cominciata, e come possiamo fare per rimediare.

Se Elisabeth Finch diceva di non poter tollerare i rumori per il disturbo post-traumatico dopo una strage alla quale in realtà non s’era mai avvicinata, il problema è che mentiva mancando di rispetto ai davvero traumatizzati dai rumori, o che abbiamo creato una società in cui a nessun adulto viene detto mai «risolviti i tuoi problemi immaginari e non pretendere che gli altri se ne facciano carico»? (Jennifer Beyer si presenta all’intervista con la Perez con un cane di quelli che, secondo il tempo sbandato in cui viviamo, sono indispensabile sostegno psicologico ai pazienti traumatizzati. I cani come benzodiazepine. La poverinitudine come metodo).

Quel che mi devi dire tu, o almeno devi domandarlo a te stessa, e alle modalità d’interazione intellettuale imposte a questo tempo dalla stampa e dall’accademia americane, è: ma come cazzo ci è venuto in mente che nella valutazione d’una storia di finzione valga non se la storia funzioni o meno, ma se chi la scrive l’abbia vissuta o meno? Come ci è venuto in mente di metter su un sistema in cui si sceglie chi debba scrivere uno sceneggiato in cui un personaggio ha il cancro a seconda di quanti punti-metastasi abbiano i potenziali sceneggiatori? E adesso, che abbiamo capito quali follie produca questo sistema, come facciamo a liberarcene?

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